Domenico Carrara

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Sono il primo a non essere libero.
sedersi da qualche parte, osservare, renderne conto a qualcuno.
vendere pezzi del proprio passato, ritagliarli a dovere, che gli spigoli non facciano male.
amare la pioggia ma applaudire al sole.

non riesco a fermarmi e il non far nulla non è mai calma, è un’ansia che deve portare a qualcosa.
in un “qui” che è un “ovunque”. perché che lo chiami nord o sud, il mondo è il mondo.
e dai palchi parlano di uguaglianza.
e quelli che montano i palchi a volte ci restano sotto.
non erano uguali abbastanza.
e bruciano unghie nell’anima, più dentro, e puoi urlare la tua verità, puoi spiegarla lentamente, puoi bestemmiarla, puoi masticarla, niente, o quasi.
vorrei conservare una visione ingenua, infedele.
pensare che qualche volta, fosse anche per sbaglio, ci siamo capiti.

sarà che sono stanco della superficialità con cui si liquidano gli altri.
sarà che credo che uno dei peggiori modi di calpestare qualcuno sia calpestare i suoi sogni.
sarà che l’imperativo “divertiti” sa di vomito prima di iniziare a bere.
sarà questo, o un po’ di più, o un po’ di meno.
vorrei riuscire a far parte di qualcosa, ma serve incontrare occhi puliti.
il marcio sta negli sguardi velati, affrettati, sgualciti.
il marcio sta negli occhi marciti.

 

Radio Cometa Rossa intervista un giovane scrittore irpino: Domenico Carrara

Le altre vite: parlami del tuo blog.

“Le altre vite” è principalmente una raccolta di interviste, diciamo, non canoniche. Un modo per uscire, almeno in parte, dalle meccaniche dell’informazione e della comunicazione di massa. Viviamo ogni giorno un bombardamento da parte della televisione e dei giornali, una banalizzazione delle storie e delle parole. L’idea è quella di riappropriarsi del racconto, di ascoltare e leggere qualcosa che normalmente viene lasciato da parte. Dare il giusto peso all’individualità senza che degeneri in narcisismo.

Il tuo blog raccoglie testimonianze di giovani, studenti, ragazzi comuni. Qual è lo scopo di queste interviste e come scegli questi incontri?

Lo scopo è, prima di tutto, quello di lavorare su me stesso. Di addestrarmi all’ascolto. La scrittura è spesso autoreferenziale, come anche l’uso di blog o social network. Non so se questo sia dovuto ai tempi, all’educazione che abbiamo ricevuto, o faccia parte della nostra natura. Ho notato che, per quanto pensassi di essere attento a ciò che mi circondava, vivevo la vita e l’incontro con gli altri in maniera superficiale. A volte capita ancora. Forse a causa della velocità che ci “imprigiona”, forse per egocentrismo. Ce la prendiamo con le incomprensioni, ma quelle sono una conseguenza di ciò che siamo, non nascono dal nulla. Cercavo un modo per raccontare l’esterno che non partisse soltanto dalla mia visione, ovviamente parziale, delle cose. Non ho un’ideologia precisa da portare avanti, una fede. Semplicemente chiedo, registro e trascrivo. Le domande sono semplici, a qualcuno potranno sembrare banali. Ma sono domande che non ci poniamo quasi mai, spunti a cui ognuno reagisce come vuole. Ad esempio, la prima che faccio è sempre “Qual è il tuo rapporto con il presente?”. Il presente può essere inteso come attimo, come contesto sociale o altro ancora. Una cosa che spero è che il blog non venga visto, da chi partecipa al progetto o legge, come una vetrina, ma come un punto di partenza per farsi e magari rifarsi delle domande. Fermarsi e riflettere.
Gli incontri li scelgo abbastanza istintivamente, sia che si tratti di persone che conosco sia che si tratti di perfetti sconosciuti. Non ho un criterio di selezione, in alcuni casi gli intervistati si sono proposti, in altri li ho “inseguiti”. Ho avuto modo di far domande che normalmente non avrei fatto a persone con cui vivo quotidianamente, e di incontrarne altre davvero belle.

Oltre alle interviste ci sono delle poesie scritte da te. Cosa ti spinge a ricorrere al linguaggio poetico?

La stessa esigenza di raccontare che mi porta a condividere le interviste, il bisogno di contatto. Per me la scrittura è un modo per confrontarsi, dialogare. Non amo l’idea di una scrittura statica, sia nella forma che nei contenuti. Non amo neanche l’idea dell’autore che sta in alto e pontifica, scrivendo libri legati più ad altri libri che alla propria esperienza. Mi piace portare quel che leggo nella realtà, e la realtà in quello che scrivo. Più che poesie le definirei “flussi” o “impressioni”. Le pubblico in alternanza con le interviste, accompagnate dai lavori di alcuni amici. Mio fratello Alessandro, studente di pittura a Napoli. Lucia Schettino, un’artista molto in gamba, ideatrice del progetto “Mettiamoci una pietra su”. Lucia Grasso, in arte “Iside Osiride”, che realizza borse, bracciali, collane, oltre a dipingere e disegnare davvero bene. Ma anche altri amici, a cui ho chiesto “in prestito” dei lavori da associare ai pezzi.
Mi rendo conto di quanto sia difficile arrivare ad un livello almeno decente nella scrittura, e ad avere uno stile proprio. Bisogna lavorare tanto, leggere, vivere. Non adagiarsi. Ho avuto un’esperienza, nel 2009, con un editore a pagamento, di quelli che ti obbligano per contratto ad acquistare delle copie se vuoi che il tuo libro sia pubblicato. Il gruppo si chiama “Il Filo”, purtroppo è abbastanza famoso. Il gioco di questo tipo di editoria è farti sentire un genio, puntare sul ritornello del successo che ci ripetono da anni. È stata un’esperienza frustrante, ma almeno mi è servita a capire quel che non voglio fare. Per fortuna poi ho incontrato Gabriele Iaconis, un giovane scrittore di Napoli, che mi ha permesso di conoscere Aldo Putignano. Con lui ho pubblicato il mio secondo libro, Binario 8. Aldo è il direttore della casa editrice Homo Scrivens, nata l’anno scorso ma partita da anni come compagnia di scrittura. Homo Scrivens non chiede alcun tipo di contributo agli autori. Trovo molto positivo che ci siano persone che ancora scommettono su un ambito difficile come questo. È un tipo di editoria che andrebbe incoraggiato, bisognerebbe smettere di pagare per mostrare il proprio lavoro. Scrivere è un’altra cosa. Costa impegno, non denaro. Ma forse preferiamo il gioco facile.

Raccontami come è avvenuta la lavorazione ai tuoi libri “A riprendere le stelle” uscito nel 2009 e “Binario 8” uscito l’anno scorso. Cosa li accomuna?

“A riprendere le stelle” è una raccolta di testi in versi, alcuni nati come canzoni ed altri come poesie. Li ho scritti in un periodo abbastanza lungo, dal 2006 al 2009, insieme ad altri che non ho inserito nel libro. Il titolo l’ho scelto quando ho scoperto che esiste un’associazione che “vende” stelle. In pratica, pagando, puoi mettere il tuo nome ad una stella. Ti lasciano pure il certificato. Ecco, diciamo che questa per me è la massima espressione dell’ansia di “possedere” che abbiamo. L’idea di fondo era quella di tornare ad una visione più genuina ed istintiva delle cose, “riprendere” ciò che appartiene a tutti.
Invece l’idea di “Binario 8” è nata in un periodo in cui mi sentivo abbastanza “costretto”, ed ho cominciato a pensare a queste persone in treno, ognuna col suo motivo e la sua visione di viaggio, che cercavano di fuggire in qualche modo dalle costrizioni e dalla routine. Volevo trasmettere soprattutto un senso di incomunicabilità. Infatti i personaggi si guardano con sospetto, a volte si sfiorano ma non si fidano, non si lasciano andare. Anche se hanno pensieri, in alcuni casi, molto simili. Il titolo è un richiamo alla circolarità della vita, all’infinito. Per questo ho pensato al numero otto, che in orizzontale è appunto l’infinito. Ci sono vari richiami a questo numero nel corso della storia, i capitoli sono sedici, e quello centrale è per me il più rappresentativo. Poi ci sono quattro intermezzi. Quasi tutte le storie sono ispirate a persone che conosco o che ho conosciuto. Anche se molte le ho perse di vista è bello pensare, qualche volta, che stiano su quel treno. E poi c’è un gatto, credo sia sempre positivo se c’è un gatto. Considero tutti e due i libri delle fasi di un percorso, “A riprendere le stelle” come un’introspezione, “Binario 8” come l’inizio di un guardarmi intorno, anche se non proprio maturo, che ha portato a “Le altre vite”… e poi non so, qualche idea c’è. Spero di crescere.

Hai scritto il testo per il video “vuoi vivere?” per il referendum del 2 giugno 2011, unione di immagini (sguardi, sorrisi) e parole per una giusta causa.

Sì. Quell’anno, con i ragazzi che stanno provando a mettere su un’agenzia di comunicazione a Napoli (L’Ensemble Studio), ho partecipato alla realizzazione di quattro video. Quello sul referendum ce l’hanno proposto i membri di un’associazione che si impegnava per fare informazione sull’argomento a Grottaminarda, il mio paese. L’idea di mostrare una sequenza di occhi e di sorrisi è stata di Alessandro Giacobelli, che si è occupato del montaggio. Le riprese le ha realizzate Ugo Di Fenza, le musiche Francesco Virgilio Sabatini. Volevamo dare l’impressione di un risveglio, sembrava un momento di riscatto nel periodo del pieno berlusconismo, prima delle ingerenze europee e del governo “tecnico”. C’era molta attenzione sulle tematiche del nucleare, sull’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, sulla privatizzazione. Sembravamo sul serio esserci ripresi dal letargo. Così ho scritto questo testo con una domanda che si ripeteva più volte: vuoi vivere? La risposta era, ovviamente, sì. Il video girò parecchio, fu anche pubblicato da Repubblica.tv, una bella soddisfazione. A ripensarci adesso sembrano passati secoli. Quelle energie positive non so dove siano finite. Spero trovino una strada per farsi risentire.

Sei di Grottaminarda, in provincia di Avellino. Pensi che ti sposterai o resterai in Irpinia?

Ho in programma di viaggiare abbastanza, ma non di fuggire. Grottaminarda resta un posto in cui tornare, anche se i ricordi migliori li ho a Napoli. Da un anno sto collaborando con un’associazione, Grotta Free, che ha organizzato diverse attività, come cineforum e concerti. Purtroppo le istituzioni locali non sono sempre disponibili a lasciarci spazi. Tutt’altro. Mi piacerebbe cambiasse l’approccio con la cultura che hanno i paesi, mi piacerebbe si parlasse meno di pub e più di libri. Mi piacerebbe vedere, almeno tra chi decide di impegnarsi, meno “capetti di quartiere” e più interesse per la comunità. Meno arrivismo e più attivismo. Sembra uno slogan. E pensare che non mi piacciono gli slogan. Pazienza.

foto di Ugo di Fenza



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