Godspeed You! Black Emperor

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«Someone asks us what the thing we made means, we say figure it out for yourself, the clues are all there» (Godspeed You! Black Emperor)

Reportage di Vincenzo Moccia

Estragon, Bologna, 11 aprile 2015.
Nulla di più soggettivo della percezione del tempo.
Tre mesi fa acquisti il biglietto, un attimo dopo sei davanti al palco.
Da Zurigo a Bologna: due anni, un paio di pulsazioni cardiache.
Finché, nel fluire tra compressione e dilatazione, il tempo rallenta. E si ferma.
GodspeedGuidato dalla traccia sonora di “Hope Drone”, ti ritrovi dentro, nella bolla spazio-temporale generata dai Godspeed You! Black Emperor.
Di nuovo. Fugati i timori che l’incanto potesse non ripetersi, che fosse solo un ricordo sognato.
I quattro proiettori 16mm di Karl Lemieux iniziano a martellare lo schermo alle spalle del gruppo: non un sottotesto ai suoni, ma un mapping concettuale: immagini apparentemente normali che si affiancano e sovrappongono, in un discordante mutare di fase e velocità.
Il violino di Sophie Trudeau, fil rouge dei primi brani, incluso uno splendido inedito.
Il monumentale “Mladic”, ormai assurto a brano-manifesto della visione dei GY!BE, un incedere sontuoso tra orientalismi, noise, feedback, rallentamenti e crescendo.
E ancora l’elaborazione in vivo di un nuovo brano: condivisione di un processo creativo e comunicativo, coerenti verso se stessi e verso una comunità implicitamente costituita.
Fino alle visioni dell’ultimo album, sfavillio di una pietra dalle mille facce.
Lampi di ritualità illuminano il palco, a tratti trasfigurando il semicerchio dei musicisti in una sorta di Stonehenge strumentale.
Finché il tempo non riprende a scorrere.

Compattezza, continuità, virtuale assenza di pause (nemmeno un problema tecnico riesce a interrompere la tensione emotiva): a posteriori, colpiscono soprattutto la naturalezza e l’onestà con cui il collettivo canadese si esprime, innalzandoti a quote vertiginose per poi farti sprofondare negli abissi più profondi, mutando tema e registro senza ridurre mai l’impatto, emozionale prima che sonoro.
Sembra un linguaggio alieno, che descrive un mondo alieno. Ma la meraviglia vera è che si tratta del linguaggio di esseri umani che raccontano il loro mondo. Il nostro mondo.
Questo il senso ultimo di un’esperienza multisensoriale che trascende i confini del “concerto”, questa la valenza politica del messaggio: riconoscerci, e riconciliarci con la nostra umanità.

Setlist

1. Hope Drone
2. (Unknown)
3. Mladic
4. (Unknown)
5. Peasantry or ‘Light! Inside of Light!’
6. Lambs’ Breath
7. Asunder, Sweet
8. Piss Crowns Are Trebled



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