Witkin

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“Il maestro dei suoi maestri” è al Pan di Napoli fino al 20 Ottobre con uno degli artisti più controversi del nostro secolo. La mostra promossa dalla fondazione Fratelli Alinari e realizzata con la collaborazione della galleria “Baudoin Lebon” di Parigi espone 55 opere del fotografo americano, scatti dagli anni settanta ad oggi.

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Woman once a Bird, 1990

Solo chi ha una profonda conoscenza dell’arte e della sua evoluzione può permettersi il lusso di sfidarla, prenderla in giro, scardinare il concetto di estetica radicato fin nel midollo della sua storia, impressionato con forza nella cultura occidentale, così tanto da diventare una certezza dogmatica e incontrastata.
Dalle citazioni e dai chiari riferimenti a mostri sacri come Caravaggio, Bosh, Dalì, Velasquez, Dürer, Courbet, Man Ray… si evince che Joel Peter Witkin nell’arco della sua vita si sia nutrito di storia dell’arte e l’abbia digerita lasciandola penetrare a fondo nel suo organismo. L’ha mescolata con una realtà oscura, mettendo in risalto il brutto, il freak, il deforme, il disgustoso. Witkin non è (solo) un fotografo, né un pittore: è un autore, perché crea, attraverso procedure complesse, una “life as invention” dietro cui si cela un pensiero oserei dire politico. Crea mondi in cui la realtà è il fondamentale punto di partenza, ma sceglie di non sottostare alle regole fisicamente imposte dalla natura. Dove non può fotografare i resti di una figura mitologica, egli supera l’ostacolo del reale costruendo manualmente lo scheletro del suo centauro. La sfida la lancia anche contro l’osservatore, ponendogli davanti delle vere e proprie visioni oniriche che spesso sprofondano in incubi.
Le sue figure in pose tradizionali, formalmente rinascimentali, incorniciate in tende scure o divise in trittici, sono protagoniste di un universo barocco e grottesco che prende spunto dal passato pittorico e si dischiude ad un capovolgimento totale dei canoni. “La bellezza ha tre capezzoli”, è irregolare e tutt’altro che rinascimentale. I simboli dell’equilibrio classico per eccellenza si trasformano irrimediabilmente: la Venere di Botticelli diventa ermafrodita. Il deforme trova forza nella sua deformità, il gobbo nella sua curvatura eccessiva, il nano nelle sue sproporzioni. Il cielo e la terra, l’uomo e la donna, la vita e la morte si mescolano e spesso si fondono, mentre si scontrano anche il bianco e nero della pellicola. Il coup d’oeil, i collages, i giochi di incastro, uniscono simboli dai richiami concentrici e richiedono uno sforzo da parte del fruitore nel riconoscere i vari elementi messi in scena. La sessualità e la vanità possono essere concetti espliciti o lavorare nel nostro subconscio in modo subliminale. Così come i riferimenti alla politica e alla religione: Witkin pone l’ex presidente Bush nella sua versione de “La zattera della medusa” esprimendo così il desiderio di vederlo annegare inghiottito dalle onde. Critico anche nei confronti della religione, l’artista si ribella a Dio ma crede in un Cristo che fatto uomo vince la morte. Siamo noi gli agnelli sacrificali, quelli destinati a soffrire e a soccombere.
Witkin vuole proteggere le sue figure dalla visione del mondo reale: alcune di esse sono mascherate, altre sono velate. Se la maschera è un accessorio (l’autore guarda con curiosità il mondo della moda), allora la benda è il filtro contro una realtà invivibile: il vero brutto è “fuori”. Il problema non è la morte (che fa parte della vita) ma la guerra e gli atti malvagi degli uomini. Le sue nature morte presentano pezzi di anatomia, frutti e fiori accompagnano piedi e mani sezionati. Le sue “pictures from the afterworld” (foto dall’aldilà) sono porte aperte su una nuova dimensione, quella in cui non si è né morti né vivi. Il cadavere, privato di quella dimensione affettiva che lo rendeva “defunto”, l’autore lo eleva ad opera d’arte ponendolo in un set e fotografandolo, obbligandoci a guardare ciò che più differisce e si allontana dall’uomo: ciò che non ha più né vita né identità. Ma le sue foto non sembrano foto, e neanche quadri: sembrano ibridi nati da una magia nera. Spesso sono i dettagli mossi a ricordarci che quelli sono scatti e non tele. L’autore è il primo a sorprendersi del risultato delle sue stesse opere, un misto di tecniche analogiche, di filtri, di soluzioni fotosensibili come il bromuro di argento, di graffi e strappi sulla pellicola che confondendo il limite tra vero e finto, tra vivo e morto, sortiscono un effetto destabilizzante e perturbante.
Il suo è un “Parnaso” di divinità imperfette ed angeli a cui hanno strappato le ali.
Non c’è traccia di demoni (quelli li lascia al mondo reale).

 C. D’Aliasi



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