BARBARI SULLA STRADA. MASSIMO VOLUME, IL LIVE.
La cognizione del dolore; le parole di Gadda che ho in mente stasera sono il preludio perfetto all’attesa. Primo giovedì di dicembre, periferia ovest di Milano, dall’ingresso del Circolo Arci Magnolia ci separa qualche metro di nebbia tra gli alberi del parco, il nostro incedere è rapido per via del freddo e della scarsa illuminazione. La cognizione del dolore, mi dico. E’ lì che stiamo andando. Ci esporremo ai colpi di un fucile carico di inquietudine sonora ed esistenziale. Il fatto è che non vediamo l’ora.
I Massimo Volume hanno pubblicato la loro sesta gemma lo scorso ottobre per “La Tempesta Dischi”. “Aspettando i Barbari” è un climax maledettamente perfetto di suoni elettrici incalzanti e disturbati, un susseguirsi quasi senza tregua di riff inquieti e note sincopate, è una base ritmica spietata che scopre la carne di un sentimento d’ansia generazionale. Perché stanno arrivando i barbari, ed hanno lo sguardo torvo dell’avidità e la bocca appesa degli idioti. Stanno arrivando come cinici venditori di menzogne spacciate per progresso, talmente svelti che non occorre una gran dose di immaginazione per prevedere il caos. Arriveranno mentre tutti fanno finta di niente, e scacceranno quell’umanità che, avvinta dal tepore dell’attesa, è scivolata nell’assenza. Riporranno le luci della sera, lasceranno il nulla.
Vince chi resiste alla tentazione/ tentazione di evadere/ vince chi resiste alle tentazioni/ chi cerca di non smarrire/il senso/ la direzione/ vince chi non s’illude/ Noi che accendiamo lumi/ per nasconderci le luci.
“Dio delle Zecche” è il pezzo iniziale dell’album, l’ottavo della scaletta di stasera. Prima c’è l’umanità irrisolta di “Dymaxion Song”, tributo punk a Buckminster Fuller, architetto e inventore visionario della geometria; e poi c’è “La Cena”, nell’ottica della sottoscritta l’ultimo piccolo capolavoro a tre anni da “Litio”, in “Cattive Abitudini”. E proprio queste due mi tocca qui di ascoltare in sequenza. La cognizione del dolore, penso.
Poi le parole scavano, siamo rapiti, Clementi e compagni sono quasi immobili sul palco, mentre ciascuno vive il proprio personale momento. I ricordi, le aspettative mancate, i sogni sono tutti mischiati, sono troppi, come in un film espressionista degli anni trenta dove manca il senso logico ed il ritmo è metronomico. Alcuni lo chiamano subconscio. Ecco, è questa la cognizione del dolore, mi dico, la strada per girarci intorno.
Oh madre/ il mare ingoia ciò che cade/ le navi i ponti le frontiere/ il senso ambiguo del dovere/ seduti qui a contemplare/ le zone d’ombra della cena/ la vita vinta dall’attesa. / Dimmi la strada/ dammi un secondo/ indicami il modo per girarci intorno.
Forse non è un caso che il concerto si chiuda tra l’altro con “Coney Island” (da “Cattive Abitudini”), dove i suoni si fanno lievi. Come abbandonarsi per un tempo prima del risveglio, desiderando che sia morbido.
Restiamo ancora un po’/ camminiamo/ tanto la vita è solo a una fermata da qui/ basta una moneta per raggiungerla/ Lo senti questo suono/ è il lamento del tempo/ o una nota rubata/ nella casa del sogno.
Come nel dipinto di Ryan Mendoza, copertina dell’ultimo album: due bambine avvinte in un abbraccio, a mostrarci l’umanità che si consola, ed è un momento che non devi disturbare.
Il concerto è finito, e tutto ciò che occorre, adesso, è il silenzio. E fa proprio bene.
Margherita D’Andrea
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