E’ dalla fine del Seicento che Porta Uzeda collega due parti molto diverse di Catania, quella popolare con quella monumentale, aprendo un varco sulla lunga via Etnea. Il Duca di Uceda a cui è intitolata era un vicerè spagnolo molto amato per essersi dato da fare nella ricostruzione della città post terremoto (1693).
Scopro le origini del nome Uzeda parlando con la cantante Giovanna Cacciola, sempre sorridente, materna e che non risparmia consigli e belle parole. Dopo il concerto di Napoli le faccio qualche domanda, poi proseguirà il tour in Francia e tornerà sui palchi italiani con i Bellini.
Gli spazi ristretti del Perditempo non hanno spaventato la band che ha tuonato la potenza esplosiva dell’Etna trasformata in musica. Solo la batteria era sul palco, mentre il resto a contatto continuo con il pubblico numeroso ed estasiato, composto da fedeli seguaci ma non solo.
La chitarra e il basso distorto si sono incontrati fra elasticità e ruvidezza, in modo sensuale si sono attorcigliati e dimenati su una batteria ineccepibile. Giovanna ha urlato con forza ma senza scomporsi, come sempre.
Dalla Sicilia hanno creato un sound internazionale, andando contro le tendenze dell’epoca, riscontrando critiche in patria ma grande accoglienza all’estero: in Inghilterra con due John Peel Sessions e in America con la rinomata etichetta Touch and Go.
Dalla fine degli anni ’80 ad oggi l’energia lavica della band non si estingue, non perde colpi, anzi, come quell’elemento liquido incandescente che ribolle sotto la crosta terrestre si rinnova continuamente -non c’è ostacolo che tenga – così la loro musica, sempre rovente, non resta imprigionata in argini temporali. Non c’è ombra di rincorse, di protagonismi, di estetismi, nessun nostalgico sentimentalismo da disseppellire. I loro pezzi sono il presente, iniziato ieri ma infinito, e vanno avanti per la loro strada senza invecchiare mai.
L’ultima volta che ci siamo incontrate era al First Floor di Pomigliano, circa un anno fa, e stasera siamo a Piazza Dante, nel centro storico. C’è un legame particolare con Napoli?
Ci sono molte affinità fra Catania e Napoli. I catanesi amano questa città, la lingua e la musica napoletana, abbiamo un pezzo di storia in comune – che non è poco – e viviamo entrambi sotto un vulcano. Nei due popoli c’è una sottile e amara ironia, un sarcasmo che prende in giro la vita soprattutto quando essa riserva episodi negativi. Non per riderci sopra ma per trovare una chiave di lettura diversa della realtà, per avere la meglio su quello che si vive al punto tale da giocarci, e questo ci accomuna.
Nella scorsa intervista abbiamo parlato di Catania ai tempi della formazione della band, stavolta cosa mi racconti a proposito dei tuoi ricordi all’estero, da John Peel all’America?
La Peel Session è stata molto importante anche per il nostro rapporto con gli Stati Uniti. La nostra esperienza inglese è stata una sorta di sogno, non ci aspettavamo l’invito di John Peel, nè che pubblicasse il disco con la registrazione, una sorpresa immensa. La seconda Peel Session ci era stata proposta per l’incisione ma in quel periodo abbiamo conosciuto Corey Rusk della Touch and Go che ci ha suggerito di utilizzare gli stessi brani, non registrati alla BBC ma riregistrati da Steve Albini (degli Shellac -ndr) per un disco. Chicago per noi è come una seconda casa, siamo sempre stati accolti nel migliore dei modi, ogni volta che si torna lì è una festa. L’America è una grossa parte della nostra storia e ci ha molto incoraggiati avere un riscontro nella patria da cui proviene il nostro tipo di suono. In quel periodo in Italia eravamo visti con sospetto da una buona parte della stampa.
Perché questa diffidenza? Era dovuta a pregiudizi per il genere musicale oppure alla scarsa attenzione nei confronti dell’underground?
Non è detto che si debba piacere a tutti, sta nel gioco, ma la cosa che ci lasciava più perplessi agli inizi era la diffidenza estrema causata dal fatto che usassimo la lingua inglese nei testi, ci hanno criticati molto per questo. Oggi è una cosa comune ed accettata, in questo siamo un po’ presuntuosi: abbiamo fatto un piccolo passo verso questa nuova apertura. Noi non abbiamo mai avuto un look particolare, non ci siamo mai presentati diversi da come siamo, pur con estremo rispetto del palco, del fatto che le persone, venendo ai live, ci regalano tempo della loro vita, tempo prezioso. Non ci sono soldi che possano ripagare questa gioia.
Non vi siete lasciati condizionare dalle mode e vedere ancora oggi un locale strapieno e gente fuori che riempie una piazza nella speranza di potervi raggiungere vuol dire che avete lavorato bene!
Viviamo in una terra difficile, con luoghi di frontiera. Ti abitui a tutto ma poi capisci che se vuoi sopravvivere, intellettivamente e interiormente, devi essere coraggiosa, te ne devi fregare, andare avanti rispettando le tue scelte con la consapevolezza di poter sbagliare o fare cose che piacciono solo a te e a nessun altro. Ma se questo è un lavoro serio non può non dare risultati, perchè lavori su di te, ti migliori e scarti quello che non serve alla tua necessità di esprimerti. Credo che le persone lo sentano tutto questo e che siano incoraggiate dalla nostra musica ad esprimersi nonostante le difficoltà. La nostra musica non è di immediato riscontro e fa loro sperare che esista un modo per comunicare l’incomunicabile.
Ti ripeto una domanda che ti ho già fatto: state lavorando ad un disco nuovo?
Da una vita, perché siamo lentissimi. Rispetto alla volta scorsa abbiamo fatto un pezzo in più.
Non amiamo preparare un disco e poi presentarlo: lo rodiamo nel frattempo. Mentre componiamo i pezzi li suoniamo dal vivo e poi quando sono tanti li incidiamo perchè la registrazione è solo un modo per documentare quello che facciamo. La parte importante per noi è la performance live.
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