“Ho letto una volta che gli antichi saggi credevano che nel corpo ci fosse un ossicino minuscolo, indistruttibile, posto all’estremità della spina dorsale. Si chiama LUZ in ebraico, e non si decompone dopo la morte né brucia nel fuoco”.
David Grossman, da “Che tu sia per me il coltello”

Lo scorso sabato 18 ottobre incontriamo i LUZ al Bar Pino (Campagna, Salerno) per la rassegna Sol-Palco. Ed è infatti un soppalco, piccolo e accogliente, quello che ospita il trio formatosi a Roma nel 2011. Partecipando al Collettivo Musicale Franco Ferguson, un vero e proprio laboratorio di improvvisazione e ascolto reciproco, le strade del chitarrista Giacomo Ancillotto, del contrabbassista Igor Legari e del batterista Federico Leo si incontrano, quasi per caso, scaturendo la realizzazione del loro primo disco, Polemonta (Auand, 2014) con la violoncellista americana Tomeka Reid, una formidabile musicista della scena avanguardistica di Chicago.
Polemonta ha un duplice significato: in griko è sia combattere che lavorare, e emergere in campo musicale, si sa, è un po’ come lottare. L’album sembra una lunga colonna sonora, influenzata certamente da impressioni cinematografiche e letterarie, condensate in un genere indefinibile e che dal vivo si trasforma in un vero e proprio viaggio.
“Luz” è qualcosa di indistruttibile, di magico, impossibile da corrompere, un ossicino di cui forse ignoriamo l’esistenza e le potenzialità, eppure ci appartiene. Allora può essere paragonata ad una forza inspiegabile, come quella compositiva, che non sappiamo da dove provenga, eppure rende l’artista capace di creare passaggi, assoli, riff che non invecchiano col passare del tempo… Penso al pezzo “Polemonta”, quello che dà il titolo all’album e che, una volta ascoltato, non ti abbandona più. Penso alle sensazioni che mi hanno lasciato i Luz e che continuano a vibrare e risuonare dentro me anche a distanza di giorni.

C.D.

Intervista ai Luz