Carla Bozulich

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BozulichLa grande Carla Bozulich, grazie al Godot Art Bistrot, arriva lo scorso 14 ottobre alla Casina del Principe di Avellino, accompagnata da John “Jhno” Eichenseer (elettronica e viola), Adrian De Alfonso aka Don the Tiger (chitarra) e Lisa Gamble (batteria, sega) per farci asoltare BOY, il suo ultimo disco per la Constellation Records. Carla ha iniziato a lavorarci nel 2009, curandone i dettagli in autonomia – il che non significa in solitudine – dal missaggio alla copertina, viaggiando tantissimo da New York a Berlino, fino a San Diego, accompagnata da pessimo caffè americano e una buona dose di insonnia. Il disco, naturalmente, risente di questi numerosi spostamenti, della sua vita trascinata da un locale all’altro in cui esibirsi, dei momenti di attesa seduta su un divano, a casa di uno sconosciuto, o sul seggiolino di un treno. “I guess these songs echo things I think about when I travel” scrive a Madrid nel 2013, nella nota inserita nel libretto. Avendo in quel periodo perso da poco un caro amico ed ex collega (con cui ha suonato negli Ethyl Meatplow), Carla ha iniziato a ricordare tutte le cose belle fatte insieme a lui e, come per magia, alla sua mente sono tornati i giovani ragazzi del Midwest o del sud degli Stati Uniti che tanto apprezzavano la sua musica negli anni ’90. A loro è dedicato BOY e ai bambini dimenticati da Dio, quelli che danzano anche se non hanno una ragione per essere felici e che, crescendo, conoscono la malattia, l’AIDS, la droga, il suicidio. Sarà per questo che l’inchiostro della sua dedica, sulla mia copia, scrive:”This boy is dancing“. Sarà per questo che lei lo definisce il suo disco POP, nel senso di popolare, vicino alla gente.
Quello di Carla è un blues apocalittico, di un’eleganza che la accosterebbe a Nick Cave o a Blixa Bargeld, ma anche a Lydia Lunch (con la quale ha collaborato) per impulsività e femminilità. E’ sofferenza tramutata in musica, un fuoco ardente e tremolante, Carla, che non cela le sue fragilità e che ti rapisce anche visivamente, sul palco, con la sua presenza piccola eppure imponente. E’ la nostra Billie Holiday, da giovane prostituta eroinomane dall’esistenza infernale, ad una delle voci più belle e cariche di pathos della nostra contemporaneità. Unica musicista non canadese accolta in casa Constellation, una cult-label di Montreal con cui pubblicano, tra gli altri, i rinomati Godspeed You! Black Emperor, partorisce “Evangelista”, diventato nel 2007 il nome del suo progetto, una sorta di laboratorio aperto che ha incluso Tara Barnes (basso) e Dominic Cramp (keyboards). Ma Evangelista è solo una parte di tutto ciò che Carla rappresenta, basti pensare a Geraldine Fibbers e alla parentesi di Scarnella.
Qui alla Casina ce la godiamo mentre esegue One hard man (che dedica alle donne e ai ragazzi, ma solo a quelli che non sono stronzi!), Drowned to the light, Gonna stop killing, Danceland e altre… Il suo microfono giocattolo si rompe (“senza questo oggetto non sono una musicista!” dice), ma non importa, si va avanti lo stesso, sperimentando, improvvisando, superando i problemi tecnici. E alla fine si lascia andare ad una cover di Willie Nelson (Red Headed Stranger) tracciando dentro di noi, fino all’ultimo respiro, una dolorosa e piacevole ferita, difficile da dimenticare.

 

di C. D’Aliasi
Ph. Al. Farese

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