Di Rosaria Carifano
Martedì 15 Novembre ore 11.30, sono sul treno diretto a Milano Centrale. Ho dormito fino a poco prima, perché la sveglia per la partenza è suonata alle 5.30 e la giornata precedente non è stata delle più tranquille o riposanti. Francesco non c’è, è fermo alla macchinetta del vagone 7 a tentare di sbloccare un pacchetto di patatine di soia (le uniche disponibili) rimasto in bilico tra gli erogatori. Mi stiracchio. Apro un settimanale femminile che ho acquistato al volo prima di salire in carrozza per avere qualcosa da leggere in viaggio. Uno di quelli che aggiunge qualche articolo di approfondimento ai soliti consigli di estetica, moda e seduzione. Un po’ sfoglio, un po’ sbuffo e guardo l’orologio. Ancora due ore. Rimetto gli occhi sul giornale e, completamente all’improvviso e totalmente fuori da ogni mio controllo fisico ed emotivo, inizio a piangere.
Mi sento stupida. Sono seduta da sola in un treno tra passeggeri sonnacchiosi e tranquilli. Nulla turba la placida calma del viaggio e io che faccio? Piango. Passerò per matta, mi dico. Attirerò l’attenzione inutilmente e per qualcosa che dà l’idea di essere brutta. Cerco di trattenermi, senza risultato. Passo al contrattacco e recupero un fazzoletto di carta dalla borsa per tamponarmi dalla palpebra inferiore. Devo arginare l’effetto panda del trucco e giocarmi la carta delle lenti a contatto fastidiose. Respiro, guardo fuori dal finestrino e capisco che l’unico modo che ho per smettere davvero è quello di chiudere quel giornale maledetto, che ha deciso di intervistare il padre di una delle vittime degli attentati al Bataclan di Parigi dello scorso anno e, per una serie di coincidenze, di sbattermelo sotto gli occhi proprio stamattina.
Io non sono su quel treno per motivi di affari o salute. Anzi, mi sto proprio prendendo una pausa dal lavoro, dagli impegni, dallo stress. Mi capita sempre più raramente perciò, dentro di me, mi convinco che me lo merito. Sono su quel treno perché sono diretta al Forum di Assago per il concerto dei Placebo e non sto più nella pelle. Ho comprato i biglietti nove mesi fa. Sono passati vent’anni da quando la radio iniziò a passare i loro primi pezzi e, soprattutto, da quando l’adolescente che ero gli concesse di entrare a far parte del suo mondo, complicato, confuso, in bilico tra dolore e speranza praticamente ogni giorno. “La musica mi ha salvato la vita”, sento dire spesso in giro. Chissà quante di quelle volte lo ha fatto per davvero. Nel mio caso, non mi ha mai fermato sull’orlo di un davanzale perché non ci sono mai arrivata, ma di certo è stata fondamentale. Lo è tuttora. Più spesso per capire, che per evadere. Per conoscermi, più che per distrarmi. È una parte fondamentale della passione che mi sono scelta come lavoro, perciò ci vivo dentro, e mi piacciono tanti stili diversi, che sembrano non aver nulla in comune tra loro. Seguo nomi, gruppi e sonorità i cui fan sfegatati di ogni parte raramente si mischiano tra loro. Ma a me non importa. “Come ti fa a piacere Nick Cave e poi Ligabue?”. “Com’è possibile che ascolti i Sigur Rós ma anche Mannarino?”. Per lo stesso motivo per cui adoro la lasagna ma anche la cioccolata fondente, metto i tacchi e pure le Converse, impazzisco per i gatti e vorrei adottare un pinguino. C’è troppa bellezza a questo mondo per fare la snob. Ascolto come una spugna. Mi lascio invadere da note e parole. Mi muovo a tempo. Mi unisco alla voce. Mi sento bene.
E da quando sono “grande”, autonoma, ogni occasione è buona per andare ad un bel concerto. È come prepararsi per una festa o un rituale. Tutto comincia quando so della data. Calendario alla mano, cerco di immaginare quel poco di prevedibile che c’è nella mia vita e capisco se si può fare. Ogni volta mi dico “mal che vada il biglietto me lo rivendo” e, invece, puntualmente, faccio carte false per poterci essere. Per pagarmi ingresso e trasferta mi privo di tante cose. Un vestito che mi piace, un’uscita in più. Ci sono stati momenti della mia vita in cui davvero contavo il centesimo (e a volte ancora succede) ma non mi pesa. Quello che avrò in cambio vale qualche piccolo sacrificio. Poi sento le schifezze che combinano col secondary ticketing e un po’ la scimmia al cervello mi sale. Ma questa è un’altra storia… I giorni precedenti all’evento rispolvero il repertorio dell’artista. “Questa la farà? Questa la voglio! Se non mi fa questa lo ammazzo”. La sera prima (in verità, la notte) preparo la valigia. Tiro fuori li mio zaino da concerti, sempre più distrutto e ogni volta con una cucitura aggiunta, ma non me ne separerò fino a quando avrà un ultimo brandello. Devo ricordarmi tutto quello che serve. Salviettine, maglietta di ricambio, felpa, tappi di bottiglie di riserva per sostituire quelli che la sicurezza ai tornelli ci butta via pensando di privarci di terribili armi contundenti. Mai sentito di Ferrarelle usate come clave, ma contenti loro. Tanto io vado per la musica, le risse (nonostante il caratterino che tutti mi attribuiscono) le evito volentieri. Se vedo che tira una brutta aria mi allontano, ma finora sono stata molto fortunata. Anzi, quello che mi piace dei concerti è proprio il clima che si crea tra chi partecipa. In quei parterre, prati e gradoni sono nate amicizie che durano ancora oggi. Persone con cui condividi le ore di attesa e scambi pareri, opinioni, cori ai cancelli e cuffie. Ma anche esimi sconosciuti con cui, anche se non vuoi, diventi un tutt’uno. Che senti ridere alla tua battuta perché la vicinanza a cui sei costretto non lascia spazio alla privacy e che sono pronte a tenerti il posto se ti scappa. Che si commuoveranno in un momento diverso dal tuo e ti chiederanno un fazzoletto da quel pacchetto che hai estratto poco prima, quando a piangere eri tu. Che ti offriranno un salatino in cambio di un biscotto. Che canteranno a squarciagola accanto alla tua spalla o che busserai alla schiena per dirgli di abbassare quel dannato cellulare che non ti fa vedere niente. Che faranno un pezzo di strada con te, quando tutto sarà finito e ci si incamminerà verso mezzi, macchine, case, alberghi, con gli occhi lucidi, il cuore gonfio di gioia e la voglia di ricominciare tutto da capo. Ti senti viva e parte di un tutto, anche se solo per poco. Per un breve momento in cui metti in pausa la normale esistenza giorni ed entri in un altro mondo. Mi piace da matti la scarica di adrenalina che mi vibra nella carne quando le luci del pubblico si spengono, tutti gridano e il palco si accende. Fremo per la prima nota, scommetto sulla sua potenza, chiedo che tutto duri il più a lungo possibile.
È per questo che Martedì 15 Novembre alle 11.30, sul treno diretto a Milano Centrale, pensando alle vittime del Bataclan, ho pianto. Perché mi ha fatto rabbia pensare che quelle persone volevano solo godersi tutto questo e non sono mai tornate a casa. Perché ogni tanto, non so se succede anche a voi, la mia mente fa un gioco strano. Comincia a pensare “cosa succederebbe se”, e io quella mattina ho pensato a mia madre. Al bacio che non le ho dato, a tutte le volte che mi dice di stare attenta, lei che odia il caos e la folla e il sudore, e proprio non capisce la mia voglia matta di andare a questi concerti che “benedetta figlia mia, e c’hai un’età e datti una calmata”. Ho pensato a una telefonata arrivata. “Sua figlia non c’è più, perché certi stronzi hanno fatto una strage del pubblico e c’era anche lei”. Lei cioè io, che volevo solo godermi un altro po’ di bellezza finché mi sarà concessa. E piangevo per lei che sarebbe rimasta a chiedersi perché, mica per me che ormai sarebbe stato troppo tardi. Piangevo perché non sarebbe stato giusto. Come non lo è stato il 13 Novembre 2015 a Parigi. E lo so quale sarebbe la soluzione di mia madre per stare tranquilla, quella di tutti. Quella logica e inoppugnabile del “non andarci, è pericoloso, se non è necessario te la vai a cercare”. Beh, se siete arrivati a leggere fin qui e la trovate un’argomentazione valida, allora non abbiamo per nulla in comune la visione di ciò che è necessario. Per me quei momenti, quelle grida, quelle lacrime, quei sorrisi, quella vibrazione, quella musica, lo sono. E non concederò a nessuno il potere di costringermi a rinunciarvi. Perché è esattamente ciò che si vuole fare. Metterci paura, rintanarci nei nostri microcosmi, insegnarci a diffidare e abituarci a rinunciare alla libertà in cambio di un falso senso di sicurezza. Per me è un prezzo da pagare troppo alto, molto più di quei biglietti bagarinati e di quelle trasferte scomode.
Alle 11 e 36 minuti Francesco si siede di nuovo accanto a me. Mi offre una patatina di soia, fanno meno schifo di quel che credevo. Si accorge degli occhi rossi e la scusa del mix di stanchezza e lentine non funziona, ma fa finta di bersela. Lui lo sa che ogni tanto la mia testa fa giochi strani e che se non inizio io il discorso è meglio non chiedere. Mi stringe la mano, chiude gli occhi e appoggia la testa al sedile. “Allora a Giugno, System of a Down?”, gli dico. “Ci proviamo – risponde – Speriamo non sia il solito macello con le prevendite”. “Che bello, rivedo Firenze. E stavolta saliamo con Vale, Peppe e di sicuro qualche altro”. Ditelo a mia madre, che Facebook non ce l’ha, che le tocca stare in pensiero ancora per un bel po’. Io ai miei compagni d’avventura, alle emozioni, alla vita, non rinuncio. Che la bellezza possa salvare il mondo, ci credo ancora.
Come direbbero i Placebo: breathe. Believe. We are loud like love.
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