Kill The Vultures

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17 Aprile, Godot Art Bistrot, Avellino

Kill The VolturesDopo il concerto restiamo con i Kill The Vutures per due chiacchiere davanti a un bicchiere di vino bianco. I ragazzi trovano le nostre interviste molto più interessanti di quelle americane, che si fermano sulla superficie, che non vanno a fondo sebbene abbiano, teoricamente, più elementi di noi italiani per comprendere i loro brani. La musica si consuma un po’ come i panini a un fast food, e si macinano interviste e recensioni, l’una dopo l’altra, senza troppa attenzione ai singoli eventi o dischi. A quel punto mi sento sollevata, perché invece mi sembrava di aver fatto delle domande quasi ovvie! Il fatto è che Anatomy e Crescent Moon sono due ragazzi normali che vivono a Minneapolis, il primo lavora con i disabili, il secondo insegna letteratura, il primo è appena diventato padre, il secondo lo è già da sette anni, e questa loro “normalità” me li fa sentire subito amici. Gli rispondo che il motivo per cui scrivo sul mio blog e non su un giornale è proprio per evitare questo cannibalismo, per essere libera di prendere il mio tempo, documentarmi quanto mi pare, senza che nessuno mi dica cosa fare e quando farla.
Un lato davvero sorprendente della loro performance è che, nonostante il limite linguistico di molti di noi, i loro pezzi arrivano dritti al cuore, superando, come per magia, la barriera della consapevolezza e della ragione. Insomma, c’è qualcosa di primitivo, di istintivo nella loro musica capace di comunicare con un lato molto nascosto dell’ascoltatore. Crescent Moon mi chiede cosa mi abbia colpito del concerto. Trovo davvero interessante questa domanda e rispondo che c’è una parte che mi ha davvero turbata, ovvero quella in cui sembra parlare dall’aldilà (nel pezzo “the river”), e lo fa guardando a terra, come se ci osservasse tutti dall’alto o come se riuscisse a vedere il suo corpo morto da fuori. Forse è solo una mia suggestione, ma io l’ho vista proprio così. A lui questa immagine piace, ripete il testo fra sé e sé, poi prende il mento fra le dita della mano destra e dice: “davvero interessante!”. Anatomy invece sfoggia un ampio sorriso e mi dice che “the river” è il cuore del disco, senza quel pezzo il resto non esisterebbe.

DSC_3203_1Kill The Vultures è il ritornello di una loro canzone, scritta quando il gruppo era più numeroso (c’erano anche Advizer e Nomi) ma ancora non aveva un nome. Quella sorta di “statement” battezzò il progetto. Uccidi gli avvoltoi è un invito a non lasciarsi mangiare dai potenti, sia in senso generico che in senso più strettamente politico. “In America problemi come il razzismo, l’uguaglianza fra uomo e donna e altro sembrano risolti e invece c’è un ritorno costante di queste problematiche perché non siamo realmente consapevoli, sono ferite ancora aperte” dice Crescent Moon. E Anatomy aggiunge “Dopo il Vietnam nessuno voleva più la guerra, ma dimentichiamo in fretta, e tutto ritorna ciclicamente, riviviamo le stesse cose dei nostri avi, senza uscire da questo loop”.

Il loro ultimo disco Carnelian, uscito a sei anni dal precedente, è nato da una lunga lavorazione ma allo stesso tempo da un flusso di coscienza istintivo, influenzato da un periodo di transizione e anche di sofferenze. Rappresenta una sorta di spartiacque per il duo del Minnesota, un momento di crescita in cui è necessario cambiare pelle (forse a questo si riferiscono le squame della copertina), per un disco solido e completo dedicato al concetto della morte e a cosa avviene dopo. La corniola che traduce il titolo dell’album, infatti, è una pietra utilizzata nell’arte religiosa ma il concetto dell’aldilà non è necessariamente collegato a un particolare credo: ogni essere umano sente la necessità di immaginare cosa avviene una volta che la vita viene interrotta, e questo bisogno si trasforma in urgenza quando hai perso qualcuno di caro.

La potenza dei Kill The Voltures si esprime nella combinazione tra hip hop e sperimentazione, tra beat e campionature originali jazzate, con prevalenza di trombe e pianoforte, ma anche afro e in parte anche trip hop/jungle. Quando gli dico che alcune sonorità mi sembrano britanniche più che americane, Anatomy mi spiega che in effetti ci sono degli elementi che hanno influenzato il loro lavoro simili a quelli che, nel tempo, l’Inghilterra ha importato dall’America. DJ Premier, Diamond D, Pete Rock possono essere alcuni dei nomi che hanno avuto un effetto sulla loro musica, ma ci sono collegamenti che apparentemente sembrano meno diretti e che invece hanno il loro peso, come l’influenza di Nina Simone (e io aggiungerei anche quella di Sonny Sharrock).

Dopo un tour che in Italia li ha portati a visitare più di dieci città italiane, tra cui Milano, Genova, Napoli e Bari, faranno tappa a Padova e Bologna, poi torneranno in America, ma siamo certi che presto li rivedremo, perché dell’Italia si sono innamorati e noi saremo pronti ad accoglierli, ancora una volta entusiasti di quello che di incredibile sono capaci di donarci.

Report e intervista: Claudia D’Aliasi
Foto: Alessandro Farese
un ringraziamento particolare a Max e a Donatella

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