(Massimo Troisi a Blitz di Gianni Minà, 1982)
La telecamera aspetta. Aspetta che qualcuno si affacci da quella balconata seicentesca, che, dai ruderi di una tradizione, venga a portare un nuovo linguaggio, un giro di boa. Intanto qualcuno dal cortile lo chiama a gran voce: che non si faccia attendere, è un invito sguaiato, senza tante cerimonie. “Gaetà! Gaetano!” ma nessuno risponde alla chiamata, la balconata è muta. “Gaetà! Gaetano!” è un cinema che muore ad avvertirlo disperato e Gaetano, alla fine, arriva. Arriva da dove non si aspettava, sbuca dal portone pieno di polvere, in penombra, arriva correndo, gesticolando, con il farfugliare di un dialetto che ad ascoltarlo sembra il Vesuvio. Questa è l’entrata in scena di Troisi nel cinema italiano, Ricomincio da tre, 1981. Troisi corre per la fretta e l’urgenza di rompere tutti i codici di riferimento, come se sapesse consciamente di non avere molto tempo a disposizione per la sua impresa.
E’ la Napoli di Cutolo, del “Ma nun dà retta, ce sta chi ce penza”, è la Napoli figlia e schiava delle speculazioni edilizie di Achille Lauro, dell’Italsider di Bagnoli, della NATO, del terremoto del 1980. “Un popolo mosso come il mare e quando il mare è più forte, come dopo un terremoto, anche il popolo si muove e dà quello che può. Con il cinema, con la musica, con i pugni, come Oliva.” Così spiega Lina Sastri quell’incredibile fucina e giostra di creatività dei primi anni 80. Una Napoli che non può rifuggire il proprio passato, come se fosse polvere sotto il divano, ma che è chiamata a raccontarsi nella quotidianità attraverso gli occhi più dissacranti, senza aver paura di inimicarsi le sue istituzioni, i suoi santi e le sue tradizioni. “Con nelle orecchie le voci di Berlinguer , dei cileni esiliati, della gente comune , assorbe ogni parola , ricreandola e facendola sua e originalissima”. Insomma “Ognuno co’nonno sujo”, sentenzia Troisi a Minà. L’anarchia di Blitz sembra cucita addosso alla semantica di Troisi. Una trasmissione che va in onda la domenica pomeriggio su Rai Due, mentre la gente per bene guarda Domenica in di Baudo sul primo canale. I tecnici hanno ancora i camici bianchi, ma tanto l’architettura dello studio quanto la scaletta del programma non lasciano dubbi sulla conduzione: è un’arena senza filtri in cui si accavallano selvaggiamente nelle riprese, pubblico, operatori e ospiti, teatro di improvvisazioni e sperimentazione.
Non potrebbe esserci occasione migliore per Troisi per redigere il suo Manifesto: come nel suo cinema non teme di rivelare che le pareti e i telefoni sono di cartapesta, così in trasmissione, accompagnato da Benigni, Senese e Arena, non teme di svelare la finzione della società dello spettacolo dove non si possono prendere di mira carabinieri e papi, dire che Domenica in è una trasmissione per sottosviluppati, o ammettere “come ci eravamo messi d’accordo prima”. E’ arte fatta per dispetto, per rabbia, senza il piacere di starsi a sentire. Arte basata sul grande pregio di ascoltare per poi rispondere con crudeltà per fare cadere tutte le certezze, i canoni seguiti.
Massimo Troisi è stato il grande podista degli anni 80, entrato e uscito di scena con la stessa velocità, sempre in corsa per scrollarsi di dosso l’oleografia degli ossequi servili che ci tengono incatenati.
Quest’opera di Radio Cometa Rossa è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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