Il corriere era arrivato da Milano con la roba: 5 grammi. Pompeo rimase con lui a chiacchierare un po’. Non aveva fretta. Aldo, così si chiamava, stupiva della disponibilità del suo nuovo cliente, un artista pieno di pilla, abituato com’era ad essere licenziato, con una scusa qualsiasi, non appena effettuava la consegna. Ne approfittava alla maniera dei tossici da due e passa al giorno, farneticando, compiacendo e menandola. Clandestinamente, il vuoto intellettuale di Aldo confortava Pompeo nella sua ultima ora di vita, aiutandolo a credere in un mondo, come il pusher, del tutto esaurito.
E’ così che Andrea Pazienza immagina o addirittura descrive la sua fine che non tarda ad arrivare il 16 giugno 1988, 26 anni fa.
Un’overdose mette un punto alla sua vita, a 32 anni.
Andrea Pazienza rappresenta il fumetto che dagli anni ’70 e ’80 ha reciso il cordone ombelicale col passato, per creare una nuova forma espressiva, una pietra miliare fatta di eccellenza e inimitabilità, un turning point con cui ogni fumettista da allora è chiamato a confrontarsi, non sempre in modo esplicito, non solo in Italia.
Andrea è bello, i suoi riccioli e gli occhi scuri sono i segni visibili del suo essere del sud. Fonda le riviste underground Cannibale e Frigidaire con i suoi colleghi, collabora con Linus e altri giornali, sviluppando caratteristiche uniche. Pensa ai soldi, spesso ma mai mentre disegna, e lo fa in modo veloce, come se avesse un superpotere.
E’ l’84 quando Andrea inizia a pensare alla realizzazione di Pompeo e di tradurre in quest’opera le sue visioni alterate, le sue paure, i suoi incubi. Pompeo arriva per ultimo dopo una lunga lista di personaggi, da Zanardi a Pentothal, da Pertini a Pippo, come un testamento lasciato ai posteri con il racconto dei suoi demoni, impressi sulla carta attraverso slanci forti e immediati, crudi e poetici, con flussi di coscienza e neologismi, con disegni che riempiono tutta la pagina, che si impongono ai nostri occhi con un bianco e nero deciso, che si incastrano e si sovrappongono fra loro creando un effetto claustrofobico, disorientante, scioccante.
Con il suo virtuosismo grafico (ispirato a Moebius) capace di andare dalla caricatura all’iperrealismo Gli Ultimi Giorni di Pompeo si presentava, in fase pre-stampa, come un mucchio di quaderni e fogli sparsi, come se l’opera fosse ancora in fase di bozza, come un resoconto istintivo e non programmato di un’esperienza propria. Ma non era casuale: quei segni, le righe e i quadretti, non sono stati cancellati e sono sopravvissuti alle supervisioni, dando un senso di non finito, di work in progress, tipico della raccolta di appunti, anche quando non si tratta di semplici appunti. Le sue rappresentazioni sono cariche della drammaticità e dell’autoironia di un eroinomane che ama la vita eppure la distrugge, forse per assaporarla fino in fondo, o forse per non rinunciare ad una dolce e letale dipendenza, ad una sfida quotidiana a cui non si può dire no.
La morte è il destino inevitabile la cui presenza si avverte dalla prima all’ultima pagina, eppure Paz è capace di trattare un argomento così spaventoso sia con profondità che con leggerezza, perché alla fine, dopo le tante overdose sfiorate, con la morte aveva preso una certa confidenza.
Pompeo è la rappresentazione degli invisibili, dei drogati, dei diversi e, nel suo essere incompiuto, è l’autobiografia perfetta, quella che eleva ad arte l’autore stesso e la sua vita. Non importano i dettagli o se quelle parole rappresentino una reale premonizione. Andrea è quel cavaliere medievale che si allontana dal mondo, e appende il suo collo alla catena della droga fino all’ultimo respiro.
Da una busta trasse quindi due siringhe sterili da cinque cc. In due cucchiai disciolse tre grammi di polvere bianca e due di brown, abbondando in quest’ultima di limone giacché gli interessava sciogliere il taglio, per un totale di oltre quattro grammi milanesi. Infilò entrambi gli aghi nella grossa vena del braccio destro, con i gesti alternati di chi svita i bulloni di una ruota, e tirò a sé gli stantuffi provocando l’apparizione di due rosse meduse nelle grosse siringhe. Immaginò di non riuscire a premere fino in fondo i due stantuffi e paventò l’idea di un sistema di iniezione che ovviasse la sciagura di perdere conoscenza immediatamente dopo i primi due grammi. Pensò che aveva usato troppa acqua. Cercò la paura ma non la trovò.
Claudia D’Aliasi
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