Miles Cooper Seaton

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Un cantante Soul sul palcoscenico
i fari che ne mostrano il sudore
si piega su un ginocchio, sembra in pianto
i fiati non si fermano
ma mentre i tamburi battono si scopre più forte
e sul microfono
vede il proprio viso che si allarga
e il crescendo che s’innalza ormai non si trattiene più
io accetto l’uomo nuovo
e faccio vorticare il tramonto.
(Lou Reed: Set the Twilight reeling)

 

Chi si aspettava il leader degli Akron/Family, ha trovato l’anima di Miles Cooper Seaton. Ogni dubbio viene fugato dal primo colpo di campana tibetana, dall’armonia dei movimenti nella sala, dal silenzio trepidante dei presenti.
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foto di Paolo Spagnuolo

Sono nato a Los Angeles, ma la mia casa non esiste più, non c’è un posto che consideri casa mia.”
A sentirlo parlare sembra che sia nato vicino al fiume insieme a Sam Cooke, con la stessa disperazione dei diseredati, il coraggio degli uomini che crescono, che adesso, con un po’di barba, cominciano a capire come funziona il mondo, conoscono meglio sè stessi. Da qui nasce l’urgenza della narrazione di Seaton: sentirlo suonare costringerebbe chinque a mettersi in contatto con un’energia impulsiva, che non riesce a controllare. E’ un dolore senza filtri, senza inutili decorazioni. E’ il dolore di un uomo che canta di morte e di solitudine con la sua chitarra. La sua non è rassegnazione, al contrario, è continua ricerca: il folk americano degli Akron è messo da parte su una scrivania per lasciare il posto agli echi di musica afro, orientale. Un’indagine incessante su quelle radici, quella “famiglia” che non ha mai trovato. L’appartenenza non è un legame di sangue, ma l’empatia con luoghi, persone che trovi sulla tua strada. In questo modo il concerto diventa l’opportunità non per riproporre meccanicamente canzoni in sequenza, ma per celebrare un percorso di vita, per segnare sulla mappa le stelle fisse e continuare il cammino: la confessione di quest’anima errante ha più la struttura di un’opera lirica, con le sue arie, le sue pause, la sua narrazione che di un 33 giri.

Mi piace concludere il concerto sempre cantando tutti insieme. Mi ricorda quando cantavo insieme alla mia famiglia in chiesa. Per me non ha un’accezione religiosa, ma è un momento di comunità, di liberazione.

E’ proprio questa la catarsi che si aspetta a fine concerto: liberatoria, commovente. Si ascolta il sospiro del vicino, si aspetta che riprenda fiato, si guardano le prime lacrime scendergli sul viso.
A cosa serve tutto questo se non hai nessuno accanto per raccontarlo?
La vita è iniziata, andate in pace.

Bianca Fenizia

Licenza Creative CommonsQuest’opera di Radio Cometa Rossa è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.

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