“I’ve never felt like I wrote songs, I always felt that I create spaces”
(C. Stallones)
Il III ciclo della rassegna “A casa”, organizzata presso il Riot Studio in collaborazione con Wakeupandream, non poteva iniziare meglio. Mai come nel caso di Cameron Stallones (aka Sun Araw), un artista arrivava letteralmente preceduto dalla propria fama, per un appuntamento che aveva mandato in fibrillazione gli appassionati sin dai primi rumors.
Grande attesa e altrettanta curiosità. Un triangolo automobilistico sulla strumentazione. Una t-shirt a tema hongos appesa al tavolo. Segnali, codici. Un invito alla open- mindedness.
Il suono Sun Araw appare semplice, quasi essenziale nella struttura: sulle battute lente di una drum-machine tribale, Stallones cuce loop sintetizzati, ondeggia con riverberi chitarristici, canta con voce straniata. Con Alex Gray ad aggiungere altre dimensioni (non solo sonore), soprattutto con un flauto mutante. Sonorità familiari, eppure diverse.
Sullo schermo dove ti aspetteresti caleidoscopi acidi e immagini posterizzate, scorrono scene da documentario etologico, riprese statiche di interni. Sottili spiazzamenti.
Non è un concerto, ma una spirale che ti avvolge lentamente, liberandoti dalla dimensione fisica e, soprattutto, temporale. La prevalenza di un tono drone dei primi brani ha l’effetto di fare tabula rasa: genera le condizioni per una vera e propria esperienza trascendente, in cui ci si trova immersi con i passaggi sempre più ipnotici dei pezzi finali.
Echi tropicali, nebbie sonore, miraggi desertici. Gli occhi si chiudono, il tempo non esiste più.
Reportage e foto di Vincenzo Moccia
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