The Soft Moon + Maserati

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Maserati“Hi, we are Maserati from Athens”. Il saluto a mezza voce di Coley Dennis ti intenerisce: se non vi conoscessimo, non saremmo qui! Poche parole, parlerà la musica. E quella batteria collocata al centro del palco lascia pochi dubbi su quanto seguirà.
Si parte con “SanAngeles”, dall’ultimo album: bella energia, ma è giusto per scaldare il motore. E’ solo dal pezzo successivo che svanisce ogni dubbio sulla scelta del moniker: la batteria di Mike Albanese imprime un’accelerazione bruciante, raggiungendo un regime impressionante senza perdere un colpo. Con le due chitarre intrise di delay di Coley Dennis e Mark Cherry, e il dettaglio di Chris McNeal al basso, a disegnare il flusso aerodinamico di una corsa coinvolgente e vertiginosa. Una declinazione incalzante del post-rock più raffinato.
Mike Albanese riparte brano dopo brano, si tira il fiato solo con una intro ipnotica e dilatata di “Inventions”, che conduce all’ultima parte di un concerto irrinunciabile.
A fine serata, rivedere Albanese tra il pubblico sarà come incontrare un vecchio amico, che si schernisce nel ricevere i tuoi complimenti: Maserati, espressione di potenza e stile. E non stiamo parlando di automobili.

The Soft MoonTocca a The Soft Moon. Dopo la metamorfosi subita nell’intervallo, il palco si presenta sinistramente spoglio. In rigoroso totalblack, Justin Anastasi (basso) e Keven Tecon (batteria) appaiono defilati, lo spazio è tutto per Luis Vasquez . Prime battute e gli intenti dei Soft Moon vengono dichiarati attraverso le geometrie minimali di un synth ossessivo e di una batteria che sembra una drummachine.
In un mare di noise.
Padrone assoluto della scena, Vasquez rimbalza e si contorce, folgorato da continue scariche di adrenalina: la voce è spesso un urlo, a volte libero, a volte strozzato. Nel buio lacerato dalle luci, i brani si alternano martellanti e magnetici, i bpm variano dal techno al kraut, al limite del tribale. Solo a tratti Vasquez abbandona la chitarra per le tastiere o i bonghi.
Suoni e visioni implacabili, che evocano più di un riferimento (al primo urlo abbiamo visto Alan Vega), ma non c’è margine per le citazioni. Vasquez racconta un malessere che è anche il nostro, usando un suo linguaggio ossessivo e viscerale: liberazione, catarsi… in ultima analisi, non è ciò di cui abbiamo tutti bisogno?

reportage e fotografie di Vincenzo Moccia

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