Dio salvi il Natale!

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Dio salvi il Natale!

lì dove Ebenezer Scrooge e il pittore William Turner compresero di essere compagni di naufragi certi, intonando una vecchia ballata.

A foggy day in London Town, had me low and
had me down. I viewed the morning with
alarm, the British Museum had lost its charm.
How long, i wondered, could this thing last?.
But the age of miracles hadn’t passed, for,
suddenly, i saw you there and through foggy
London Town.

Ira Gershwin, 1947.

 

L’imposizione è stata precisa, seguendo il rigor gentile del comando, come per qualsiasi obbligo autoimposto: scrivere sul Canto di Natale di Charles Dickens.
Ma il Natale, come sempre, trascorre scialbo e la spinta data da un film di Robert Zemeckis1, non ha animato il coraggio, spento e riposto nella scatola degli addobbi, tra stelle spuntate e piogge d’argento disfatte.
Così, l’avvento di un nuovo Natale ha riacceso il desiderio di ricomporre i pezzi, in piena libertà, narrando le gesta e le opinioni di Ebenezer Scrooge, il vecchio finanziere riconvertito al bene, tra immagini e bozzetti di disegnatori inglesi, tutte ombre, spiriti e fuliggine di camino. Si renda quindi omaggio al vecchio Ebenezer, confidando sul prossimo Natale e chi non lo fa, una peste fitta lo colga.
Cercheremo il commiato, come lo farebbe Dickens, prendendo in prestito un possibile incipit da un passo di Edgar Allan Poe, tra le pagine poco battute dei suoi scritti di estetica e filosofia della composizione.

 

Quando compro un libro, mi preoccupo sempre che abbia margini spaziosi: e non tanto per l’amore della cosa in sé, che pure fa piacere, quanto per l’opportunità che il margine ampio mi offre di scrivervi a matita le idee che mi vengono. Quando quello che voglio annotare è troppo lungo perché rientri nella stretta striscia di un margine, l’affido a un foglietto che inserisco fra le pagine, e mi preoccupo di fissarcelo con una goccia impercettibile di colla 2

 

Da ragazzi, nel campetto parrocchiale, si era tenuti a difendere i pali dando peso ad un ruolo ricoperto da nessuno. Quelli meno bravi o taciturni per carattere hanno sempre preferito attendere il tiro, piuttosto che formularlo.
Nelle lunghe pause per metter su la squadra giusta, un giorno in canonica il Signor Scrooge si ritrovò a sfogliare un catalogo della Tate Gallery di Londra, restando sorpreso per la scoperta di quel volume, come quando un tiro da lontano prende una traiettoria sghemba e oltrepassa la difesa. Aveva segnato la sua attenzione un acquerello del pittore inglese William Turner, dal titolo Ship on fire, databile verso la fine degli anni venti del 1800.

 

Il centro del foglio era occupato da un denso nero e da un cinabro tenue, molto sfumati e coperti da diversi strati di colore in lucida dissolvenza. I contorni sembravano fumo, altri definivano lo scafo di un’ipotetica nave, il tutto appariva perso tra aloni e chiarori di biacca. Lentamente intuì che l’ideale paesaggio derivava da un concetto; la scena descritta non era altro che figurazione di un suo stato d’animo e Turner aveva usato tale rappresentazione come segno di un’idea.
Lo spirito di quell’opera era piuttosto insolito. Apparentemente calma, sublime, o delicatamente nostalgica. Ben presto, però, si rese conto che quel paesaggio aveva a che fare più con l’arte della natura, e che da un punto di vista artistico sembrava un pastiche. Nei pastiche è sempre presente una certa inquietudine o disperazione. Così il critico John Berger delineava l’estetica delle tele di Turner immaginandone la probabile combinazione con l’ambiente fuligginoso di una bottega da barbiere3.
Buona parte dei suoi dipinti sembra avere come tema la conseguenza del peccato, ma la materia che inquieta in questi quadri non è il senso della colpa, ma una reale indifferenza. Berger riteneva che fosse stato Turner e non Dickens, Wordsworth, Walter Scott, Constable o Landseer, a rappresentare pienamente con il suo genio il carattere della Gran Bretagna del XIX secolo.
Ripensando ai romanzi di Dickens, alle pagine più amate, la descrizione deriva sempre dal desiderio di materializzare un in-canto. I paesaggi di Dickens celano una lenta fluttuazione tra sogno e realtà, un cambiamento insensibile dove tutto si fonde, trasformandosi in una visione magica al margine di una pagina bianca. In qualunque momento, scrive E.A. Poe, possiamo raddoppiare la bellezza di un paesaggio reale se lo guardiamo socchiudendo gli occhi. I sensi da soli vedono a volte troppo. Questo conflitto si trova nei romanzi di Dickens espresso attraverso una polifonica mescolanza di modi, dal realismo al grottesco, al comico, al fantastico e all’orrifico. Attraverso le loro sequenze gotiche, le opere di Dickens si muovono verso una struttura dialogica, mettendo in discussione dall’interno i presupposti normativi delle loro strutture realistiche. La particolarità dell’arte visionaria di Dickens ha qualcosa d’indefinito, quasi che la parola volesse crescere al fine di rompersi, come ogni forma nella musica, nel punto della più alta tensione e di sciogliersi per poi ricominciare, come l’ultimo frammento di un universo o come i colori tenui di Turner. Dickens sembra suggerirci un mondo spirituale che compenetra quello visibile, sia che ci offra un fantastico aspetto della natura umana derivata direttamente dal vero, o un’immagine puramente scientifica. Dalle sue pagine si svela un vivo e ammirato sentimento di bellezza crudele, una dissoluzione delle apparenze naturali. Nelle visioni più spaventose del suo personale Canto di Natale, un carattere di terribile magnificenza si unisce all’orrore, introducendoci in desolate regioni, in quelle lands of inusual sadness descritte nei racconti del bostoniano Poe, dove tutte le cose assumono il liquore della fuliggine. Dickens si compiace nell’ammirare gli ideali paesaggi, i modi e i ritmi della sua orchestra di parole, i sospiri e i mormorii delle assonanze e le furenti urla delle dissonanze. Sotto la magia di questo stile, ogni cosa sembra immateriale, a volte fatto di movimenti, di un moto incessante, altre soltanto di silenzio e immobilità. Sembrerebbe ammirare un dipinto di un post-impressionista, con piani e spigoli gettati alla rinfusa a rifrangere la luce. Ma qui è questione di metodo.
Vladimir Nabokov, nelle sue lezioni di letteratura, dedica pagine illuminate a Dickens, descrivendone la potenza immaginifica: l’incantatore m’interessa più del tessitore o del maestro. Nel caso in questione questo atteggiamento mi sembra l’unico modo che permette di mantenere in vita Dickens, al di sopra del riformatore, del romanzetto a buon mercato, della paccottiglia sentimentale, delle assurdità teatrali. Egli splende per sempre sulle alture di cui conosciamo esattamente l’altitudine, i contorni e la formazione, nonché i sentieri di montagna per arrivarci attraverso la nebbia. E’ nelle immagini che è grande4.

Implacabile clima di novembre. Tanto fango nelle vie che pare che le acque si siano da poco ritirate dalla superficie della terra (…). Nebbia ovunque. Nebbia su per il fiume, che fluisce tra isolette e prati verdi; nebbia giù per il fiume che scorre insudiciato tra le file di navi e le sozzure che giungono alla riva di una grande (e sporca) città. Nebbia sulle paludi dell’Essex, nebbia sulle alture del Kent. Nebbia che si insinua nelle cambuse dei brigantini di carbone; nebbia sparsa sui cantieri e librata nel sartiame dei grandi bastimenti; nebbia sospesa sulle falchette dei barconi e dei piccoli battelli. Nebbia negli occhi e nella gola dei decrepiti pensionati di Greenwich che respirano a stento accanto ai focolari delle loro camerate; nebbia nel bocchino e nel fornello della pipa pomeridiana dell’iroso capitano di lungo corso rintanato nella sua cabina; nebbia che morde crudelmente le dita dei piedi e delle mani del piccolo mozzo intirizzito in coperta. Passanti occasionali che sui ponti guardano dal parapetto un infimo cielo di nebbia; avvolti essi stessi nella nebbia come in una mongolfiera sospesa tra nuvole oscure5.

 

E’ un mondo di caccia e inseguimenti, di corse e riposi, visto di sghembo, come quando lo si guarda tra le proprie gambe a testa in giù o attraverso uno specchio deformante. La scrittura è il segno manifesto dell’elusività del vero, quello che accade è facile da accertare, ma cosa esso significa è tanto arduo quanto importante a determinarsi. Nello stato d’incompiutezza del suo Canto di Natale, nessuna risposta è evidente, il metodo narrativo è nella descrizione.
Il suo eroe introspettivo è l’uomo solo, inseguito, minacciato, scoraggiato, per il quale il senso del dovere e della responsabilità rappresenta una traccia di salvezza. La sua scrittura è il simbolo di quel che resta: è illiberale, inesorabile, a volte priva di sentimenti; associa alla potenza del visionario, l’autocritica dello scettico, sicché comunica la sensazione che ci sia qualcosa in cui credere senza pretendere la definizione. Dickens resiste fermo all’esame e rifiuta di posare come illusionista, non ha bisogno di mettere in pratica i sotterfugi di scrittori meno rigidi, i cambiamenti di maniera o altri trucchi richiesti dal pubblico per mancanza di sicurezza morale. Al contrario molti degli scrittori contemporanei si trasformano in camaleonti dal colore comodamente evasivo.
Il suo stile unisce la frigida oggettività da laboratorio all’entusiasmo della scoperta ingenua, con una fredda accuratezza del dettaglio, quasi tagliente. Questo doppio carattere non rappresenta la perversità dell’erudizione, ma il problema dell’intelligenza moderna, la denoeument ossia la risoluzione dell’intreccio. Il suo è un universo di nitidi capolavori.
Dickens si limita a ricercare la legge o il fine di ciò che la circonda, cerca di afferrarla nelle parole, il linguaggio rileva sotto i suoi calcolati tecnicismi e pastiches, l’urto di celate armonie, i periodi si snodano con il ritmo in cui si fondono stile ed eleganza6.
L’attenzione che presta al significante, lo conduce al dettaglio estremo di ogni descrizione svelando in superficie una qualità soppressa, un’assonanza nascosta, una cadenza o un tono. Come ogni grande narratore studia il visibile nel punto focale della sua fragilità, dove visione e concetto coincidono, ricordando le parole di William Blake: non metto in dubbio il mio occhio, come non metto in dubbio una finestra che si apre su un panorama. Io guardo attraverso ad esso e non con esso e ripenso allo sguardo affascinato che posa sulla solitudine, senza drammatizzare la pietà.
Così si completa la sua rèverie intessuta sulla modernità della narrazione, nel tono di decoro retorico e nella pretenziosità del suo candore. Dickens ci obbliga a rinnovare non solo la nostra attenzione, ma le abitudini e le definizioni. Quando è riuscito a comporre questo contrasto, ha realizzato opere di straniante bellezza, per quel tentativo estremo di creare un nuovo tipo di narrazione, prendendo in prestito i temi delle miserie umane e il gioco degli incastri narrativi.
Dickens afferra il senso del moderno, odia essere considerato un classico, riponendo in questo suo desiderio un’illusoria urgenza. Dickens è l’acquerello di Turner, sembra dissolversi ma resta forma, sembra una macchia ma ha un contorno, sembra il sigillo di un codice antico, ma brucia veloce come una notizia di cronaca; eppure resta lì a raccontarci l’immobilità del nostro presente, un’immensa montagna di ghiaccio da dover scalare.
Forse è inutile far l’inventario per la salita, del resto la tavolozza è ristretta ma la tela è ampia. Farà bene il vecchio Scrooge a ricontar le sue monete d’oro, perché anche tutto questo è MUSICA.

 

Continua

Ozz

 

1 Zemeckis R., A Christmas Carol, Usa, Disney Pictures, 2009;
2PoeE.A.,Marginalia,IlMelograno,Milano1981,p.3;
3BergerJ.,Turnerelabottegadibarbiere,inSulguardare,BrunoMondadori,Milano2003,pp.159-167.Inquestoagilevolumetto,JohnBergerproponealcunipercorsialternativieludendoleinterpretazioniufficialidellacriticadartee,interpretandolattodelguardare,esploralostrettolegameconlastoriadelleideeeconilruolodellimmaginenellastoria;
4NabokovV.,Lezionidiletteratura,acuradiFredsonBowers,traduzionediEttoreCapriolo,Garzanti,Milano1982,p.163;
5DickensC.,Casadesolata,traduzionediAngeloNegro,Einaudi,Torino2006,pp.7-8;
6Perunanalisicriticadellaletteraturafantastica,oltreallabennotaoperaseminaleIntroductionàlalittératurefantastique(1970)diTzvetanTodorov,sileggalostudiodiRosemaryJackson,Ilfantastico.Laletteraturadellatrasgressione,acuradiRobertoBerardi,TullioPirontiEditore,Napoli1986.Lautricesischieracontroleinterpretazionivaghedellaletteraturafantasticavistacomesempliceevasionedallarealtàeproponedirivalutarlasenzarelegarlaaimarginidellacultura,senzasmorzareilsuoeffettotrasgressivoatuteladegliidealidellaclassedominante.



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