“Tu m’as donné ta boue et j’en ai fait de l’or”. Così Baudelaire ci svelava la sua magia: tramutava il fango in oro. John Grant non è da meno e proprio come Mida trasforma in materiale prezioso tutto ciò che tocca. Ci vuole non poco coraggio a passare dal cantautorato alla sua nuova veste, fatta di musica da club, sintetizzatori e suoni freddi, destabilizzando gli affezionati del genere e soprattutto chi è abituato ad accostare John Grant ai Czars e al disco d’esordio da solista “Queen of Denmark”. La voce calda è la stessa, la verve creativa si rinnova e cambia direzione. I testi vanno dall’ironia alla pura poesia con nonchalance, con citazioni cinematografiche e molta autobiografia.
Pale Green Ghost (Bella Union 2013) ha una copertina fuorviante: non ci fa capire neanche lontanamente cosa abbiamo fra le mani. Lo sguardo di John è quello imperscrutabile di un serial killer o di un pazzo seduto tranquillamente al tavolino di un bar. Fantasmi evanescenti si incontrano per dar vita ad un disco che risente del freddo nord in cui John vive, e attinge da un passato nostalgico in cui i synth e i moog andavano tanto per la prima volta, quando era un ragazzino con la voglia di fuggire dalla provincia (come dice in “I hate this town”). La voce di Sinead O’Connor supporta la sua in “Why don’t you love me anymore”, non mancano le ballate, tra cui “Glacier”, una canzone che dà forza a chi è costretto a soffrire l’emarginazione dovuta alla ancora diffusissima omofobia, e “GMF”, un piccolo capolavoro sulla difficoltà ma anche il fascino di amare “un figlio di puttana” coi fiocchi. Ma Pale Green Ghost è anche il disco della verità: nel verso “Doc ain’t lookin’ at me says I got the disease” di “Ernest Borgnine” c’è una confessione che vuole condividere con noi, ovvero la scoperta di essere sieropositivo all’HIV.
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