Emanuel Carnevali, morto di fame nelle cucine d’America
sfinito dalla stanchezza nelle sale da pranzo d’America
scrivevi
E c’è forza nelle tue parole
Sopra le portate lasciate a metà, i tovaglioli usati
Sopra le cicche macchiate di rossetto
Sopra i posacenere colmi
Sapevi di trovare l’uragano
(“Il primo Dio” dall’album “Lungo I Bordi” dei Massimo Volume, 1995)
E’ nella pioggia il grido di Carnevali, poeta che è divinità sprofondata nella gola di un inferno metropolitano fatto di altissimi grattacieli che lui descrive come “enormi scatoli futili e inutili”. Con le sue parole asciutte e dirette ci accompagna lungo le strade di una New York vestita a festa, come se attendesse l’arrivo dei tanti immigrati che approdano nel nuovo mondo spinti dalla fame e dalla speranza. E’ agghindata bene per far colpo su di loro, ma presto si rivela “donna tirannica, bagascia spietata coi miserabili”, “sogno di chi non sogna”, enorme delusione.
Sulla parete nord dell’ex asilo Patria e Lavoro le proiezioni delle tavole di Gianluca Costantini donano un tocco di colore vivo con schizzi di rosso sangue su immagini che sono finestre su una New York d’antan, opere che ci aiutano ad immergerci nella dimensione di “Notturno Americano (le ombre parlano piano al sole)”. Protagonista è la voce calda e ipnotica di Emidio Clementi dei Massimo Volume che incontra l’accompagnamento musicale di due elementi dei Giardini di Mirò (Corrado Nuccini ed Emanuele Riverberi) in un reading concerto dedicato al visionario e vagabondo poète maudit italiano emigrato in America agli inizi del ‘900. Precisamente è il 1914, la traversata è lunga e in musica si traduce nel canto anarchico “Il Galeone” (scritto da Belgrado Pedrini in prigione), perché sulla nave “la ciurma anemica” è composta dai futuri schiavi di un paese-chimera che da sogno si trasforma in incubo. Giunto da Bologna ancora ragazzo, Carnevali inizia a fare ogni tipo di mestiere con fatica e disperazione, come se sulle spalle portasse “il peso dell’intera America”. E’ un sognatore, e “i sognatori lavorano male”. E’ poeta e sa di esserlo, ma non potendo diventare famoso soffre di una forte invidia nei confronti dei grandi scrittori. Poi finalmente una rivista gli pubblica delle poesie, componimenti che ama declamare nelle bettole, anche sotto effetto di sostanze allucinogene come la scopolamina. E’ uno scrittore in lingua inglese, osannato dall’avanguardia letteraria dell’epoca (ammirato da Ezra Pound e Sherwood Anderson per esempio) ma che non vedrà pubblicati tutti i suoi scritti finché è in vita e che ancora oggi purtroppo è sconosciuto ai più, nonostante il suo indiscusso valore.
Emidio Clementi ama la poesia e gli piace evocare personaggi della musica e della letteratura in ciò che fa. Nell’ultimo disco “Aspettando i barbari” ha musicato i bellissimi versi di Danilo Dolci (“Dio delle zecche“) e la canzone “Vic Chesnutt” dà luogo ad una serie di rimandi, dall’autore di “Flirted with you all my life” a Wallace Stevens, da Jonathan Richman ai Fugazi. Vari i personaggi che affollano anche l’ultimo libro di Clementi “La ragione delle mani” (Playground 2012), in cui ci racconta, fra l’altro, di una settimana passata con Fausto Rossi a cui ha dedicato il pezzo di nome, appunto, Fausto.
Tornando a Carnevali, Clementi lo ha scoperto negli anni ’90 e ha scritto un libro nel 2004, “L’ultimo Dio” (Fazi editore), ribaltando il titolo di Carnevali “Il primo Dio” (pubblicato da Adelphi nel 1978) per un romanzo autobiografico in cui le vicende di Mimì-Emidio si intrecciano con quelle del poeta per certi versi così simile a lui. Questa reale affinità ha portato Clementi a costruire un reading in cui la sua voce diventa quella di Carnevali, “capitano della nave della miseria americana”, testimone di una umanità che “accarezza il sogno ma non riesce a stringerne la presa” e che con occhio attento e linguaggio moderno ci parla di quello che ancora oggi molti di noi sono purtroppo costretti a vivere.
Claudia D’Aliasi
Notturno Americano Live
Emidio Clementi – Intervista
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