Dei miei diciassette anni ricordo soprattutto i lunghi scontri con mia madre. Nella primavera del 2003 con l’invasione dell’Iraq le manifestazioni pacifiste erano quasi all’ordine del giorno e noi adolescenti con “la rivolta tra le dita” non potevamo certo astenerci da questo entusiasmo. “Dici di essere pacifista, eppure litighi sempre con tuo fratello”, questa l’accusa di incoerenza che mi veniva rivolta più spesso. Allora la percepivo come una risposta fuori dalle righe, come rispondere quadri ai fiori. Preferivo tacciare mia madre di sentimenti democristiani piuttosto che riconoscere le mie contraddizioni. Era forse troppo presto per me capire che la Rivoluzione parte dalle mura domestiche, dalla felicità familiare, dall’importanza delle parole, più semplicemente dalla coerenza di ogni giorno. Fu allora che ascoltai Gaber per cui “Un’idea finché resta un’idea è soltanto un’astrazione” e compresi che la Rivoluzione non è soltanto tagliare la testa ai padri, ma dare forma alle idee nelle proprie scelte, portare il cambiamento tra le pentole e i tegami, nei legami personali e non necessariamente in piazza.
Completamento di questa educazione fu conoscere la figura di Franca Rame. Attrice, passata dalle fasce da neonata ai velluti dei palchi in un batter di ciglia. Figlia d’arte, sposa d’arte. Una combattente. L’incontro ovviamente fu combinato dai miei nonni, assidui frequentatori di teatro, il pubblico più difficile che la televisione italiana abbia mai avuto. L’immagine di repertorio immortalava il monologo de “Lo stupro” presentato da Celentano, il tubo catodico friggeva mentre la Rame si contorceva nel suo dolore. Anni dopo avrei ripensato a quello spasimo vorticoso ascoltando l’assolo di violoncello di Jane Scarpetoni su “Venus in Furs” con Lou Reed. Quanta dignità e quanto coraggio ci vogliono per restituire al mondo le proprie umiliazioni in arte. Capii allora che Franca Rame ha dello straordinario perché dall’ordinario, dalle nefandezze del mondo che la circondavano, riusciva a mantenere la giusta distanza, il giusto equilibrio per esprimere il suo punto di vista sempre lucido, mai melodrammatico, ma ironico e incantevole come il suo sorriso. Ha saputo essere rivoluzionaria nel suo essere donna, sovvertendo l’ordine e i limiti che tale figura richiedevano: non si può dimenticare il lavoro a sei mani con il figlio Jacopo e il marito Dario sulla sessualità, sui problemi dei genitori nell’affrontare tale tematica con i propri figli. Da madre, certo, con il proprio pudore e il proprio timore, ma cercando di oltrepassarli mai ponendosi in cattedra, sempre alla ricerca del dubbio, senza custodire certezze.
Il giorno 29 maggio dal grigiore delle pagine web, è comparsa la notizia della sua dipartita. Mi sono sentita un po’ più piccola del solito. C’è bisogno a volte di sentirsi raccontati da qualcuno nelle fragilità di ogni giorno, nelle grandi vittorie. Ventisei anni da essere umano sono quello che mi ritrovo sulle spalle e ascoltare questa voce, come guardare le sue foto in bianco e nero, sono stati esercizi, appunti di viaggio, manuali di vita da cui attingere, come consigli da attrice, da donna.
Sono andata a trovare mio nonno in occasione dei suoi 88 anni, per rubare dolci alla mandorla e parlare di cinema francese, uno dei suoi cavalli di battaglia nelle conversazioni paideutiche.
“Immagino che tu abbia sentito della Rame. “ gli dico.
“Sì – risponde mestamente – se ne stanno andando un po’ tutti alla spicciolata. Questa vita è proprio una festa che finisce in tarda serata dove tutti se ne vanno malvolentieri. Si spera sempre con un sorriso sulle labbra.“
E il teatro e la politica. L’impegno e l’ingegno.
“Ma quanto è bella,eh? Come i veri partigiani che non invecchiano mai.”
Bianca Fenizia
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