“Il mio amico Danilo è un fanatico dell’inno nazionale. Va alle partite per potersi alzare e mescolare alla folla e cantare. Da quanti anni lo conosco non ha mai detto le parole “Stati Uniti”. Ma sempre “America”. Come se avesse una visione quando lo diceva. America.”
(Four Friends di Arthur Penn, 1981)
Theodore John Kaczynski ha visto l’America. La vede ogni mattina andando all’Evergreen Park High School a Chicago, la sente nelle offese e nei calci dei bulli, nei problemi di matematica che ama risolvere. La fischietta in bicicletta di notte, accennando il motivo “New World Symphony” di Antonìn Dvorak, la canta nell’inno nazionale prima di ogni partita di baseball, la mangia ogni venerdì sera nelle tavole calde. In questo modo nutre il sogno, la visione di un mondo che era nato negli occhi dei suoi, sbarcati decenni prima dall’Europa dell’est; un dono ereditato con speranza: un futuro migliore, più giusto, maledettamente vicino. Sembra quasi che si possa toccare.
1969. La stanza a Berkeley dell’ormai plurititolato prof. Kaczynski è troppo piccola per contenere la bugia del presente, come era troppo piccolo per Majorana l’istituto di via Panisperna per contenere la bomba. Il sogno ha ceduto il posto alla soluzione di un’equazione che ha scardinato qualsiasi aspettativa precedente. Kaczynski svela l’architettura perfetta di una società costruita sul falso mito del progresso scientifico, delle libertà fondamentali come cardine delle democrazie, dell’ambiente accademico a servizio dell’umanità e della curiosità del sapere.
Kaczynsky fugge nel cuore del Montana, l’ultimo presidio dell’America primitiva.
Il suo rifugio è una capanna di legno di pochi metri quadri, poco distante da un piccolo centro abitato che si chiama Lincoln. Kaczynski ha perso l’America e gli Stati Uniti ora temono Unabomber. Inizia a fabbricare con mezzi rudimentali piccole bombe consegnate ai bersagli tramite pacchi postali. Nessun dettaglio lasciato al caso nella preparazione, nessuna vittima viene colpita senza motivo: i suoi attacchi sono rivolti a lobbisti, informatici, responsabili corrotti della salvaguardia ambientale. Una vera e propria guerra al sistema che l’ha usato e deluso. Tre morti, ventitré feriti, diciotto anni di ricerche fallaci, intere città mobilitate per catturare il nemico pubblico numero uno della società post-industriale. E’ Unabomber quasi a consegnarsi nelle mani dei federali, stanco , forse, della mediocrità nella conduzione delle indagini. E’ il 1995, un anno prima della cattura. Il Washington Post decide di pubblicare con un inserto speciale il manifesto scritto da Kaczynski La Società Industriale e il suo Futuro, l’autore parla a nome di un “noi” immaginario, di un F.C. Freedom Club, di cui egli è il solo artefice e sostenitore.
E’ proprio il concetto di libertà il punto focale del saggio. Il progresso tecnologico ha determinato disgregazione economica e distruzione per l’ambiente, ma soprattutto un restringimento radicale delle libertà fondamentali dell’uomo. Kaczynski non teme ingenuamente di dichiarare il potere delle multinazionali, del controllo degli organi istituzionali ma si sofferma sulla gamma delle libertà concesse all’uomo nella sua sfera sociale, predisposte soltanto per lo sviluppo del sistema economico e tecnologico. La proprietà, il giusto processo, il lavoro: meravigliose confezioni vuote. “Libertà che sono disegnate per servire i bisogni della macchina sociale piuttosto che quelli dell’individuo.” E’ pura illusione, pura visione autoproclamarsi liberi. Non si dovrebbe pensare che un individuo abbia abbastanza libertà solo perché dice di averla. Non abbiamo ancora visto l’incredibile varietà, le infinite opzioni delle nostre libertà, ci siamo soffermati soltanto sulle possibilità che ci hanno presentato. Ancora una volta, la realtà è una visione e la verità non è concesso toccarla.
E’ come una scena del cortometraggio di Olivier Assayas, Quartier des Enfants Rouges. Maggie Gyllenhaal ritira i soldi al bancomat per pagare il suo pusher che l’aspetta alle sue spalle. Maggie è distratta e tenta di procedere con la massima rapidità per portare a termine l’operazione; lo spacciatore, intanto, tende la mano quasi a volerle sfiorare la schiena, ma il suo tocco si limita ad attraversare lo spazio e a sfiorare l’aria che la circonda. E’ una forza sovrumana o viltà che ci costringe a non andare oltre la visione, a non toccare, a non afferrare la verità?
Per il Freedom Club è troppo tardi per tornare indietro. Quando il collasso di questa società di bisogni artificiali e libertà su misura avverrà, non vi sarà possibilità di riformare o modificare il sistema così che esso non privi, in futuro, l’umanità di dignità e autonomia. Eppure lo sentiamo ancora cantare disperato nelle celle di Florence, in Colorado, Kaczynski. E’ un canto che non conosce pace, né resa. E’ un motivetto degli anni settanta, dei Buzzcocks che ripete senza tregua “Beh, sembra così reale che posso vederlo/e sembra così reale che posso sentirlo/e sembra così reale che posso assaggiarlo/e sembra così reale che posso sentirlo/quindi perché non posso toccarlo?”
Forse non sfioreremo mai la schiena di Maggie Gyllenhaal, per il momento possiamo immaginare il calore della pelle, nutrirci del desiderio implacabile della scoperta. Perché è in quello spazio, tra il palmo della nostra mano e una schiena scoperta, come quello tra due rette parallele che sembra non si incontrino mai, che viviamo.
L’arte, probabilmente.
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