Pomigliano D’Arco (Napoli), 22 marzo 2012 – La voce del sud non si trova solo ed esclusivamente nei canti popolari e Giovanna Cacciola ci spiega il perché. Gli Uzeda non accettano compromessi e dopo tanti anni tornano a suonare a Napoli.
Com’era Catania agli inizi della vostra carriera?
Quando abbiamo iniziato c’erano pochi locali ma paradossalmente c’erano più occasioni per esibirsi. Qualche birreria organizzava concerti estemporanei alla buona, poi bastava che qualcuno organizzasse una festa in giardino o in una casa in campagna… Siamo andati in posti davvero sperduti! bastava poco per suonare, c’erano meno posti ma più volontà. Poi le cose pian piano sono cambiate, hanno aperto i primi locali e le feste dell’unità ti davano l’opportunità di suonare a pagamento, in un periodo in cui nessuno ti pagava. Quei soldi erano una manna dal cielo, potevi comprarti qualcosa e soprattutto potevi pagarti la sala prove. Avevamo un buon pubblico, veniva molta gente a quelle feste, per anni è stata una buona occasione per suonare, sia per noi che per altre band.
Lentamente Catania è cambiata, soprattutto alla fine degli anni ottanta e all’inizio dei novanta. c’è stato un periodo molto florido, c’erano tante iniziative, ma la gestione della cosa pubblica conta tanto in una città che per una cattiva gestione è piombata in una depressione impressionante. Ne abbiamo risentito tutti, soprattutto naturalmente i giovani che hanno lasciato la propria terra per salvarsi. Negli anni novanta c’è stato un flusso contrario: molti ragazzi che erano andati via sono tornati. Dieci anni dopo non solo sono andati via questi ma anche le nuove generazioni. E’ una scelta inevitabile.
Noi in Campania viviamo tutt’ora un destino analogo…
Purtroppo tutto il sud vive un’esperienza simile. E’ molto difficile in questo periodo resistere.
C’erano zone centralissime della città in cui non potevi camminare la sera dopo le nove ma c’era anche uno scambio interessante fra persone, c’era anche un po’ di ingenuità, innocenza, e questo era molto bello. Si andava a vedere concerti insieme, si discuteva, si compravano un sacco di dischi e quindi si supportava la musica che si amava. Questo accadeva a Catania.
Poi come vi siete mossi?
All’inizio abbiamo avuto la fortuna di avere un amico che ha creduto fortemente in noi e che ha deciso di produrre i primi dischi della band. Così abbiamo iniziato a suonare, a girare, a fare i primi concerti fuori. Lui ci sosteneva economicamente, pagava il furgone, siamo stati aiutati molto! Poi non è stato più in grado di continuare con noi e a quel punto siamo andati in giro a cercare una nuova etichetta. In Italia non abbiamo avuto risposte, perciò abbiamo buttato uno sguardo all’estero. Prima abbiamo trovato in Inghilterra la Strange Fruit, ovvero l’etichetta di John Peel, che ha messo in commercio una delle due Peel Sessions registrate con lui.
Siete l’unico gruppo italiano ad aver registrato con John Peel?
Sì. La PFM ha fatto una session dopo di noi, ma solo alla radio. Noi ne abbiamo fatte due di cui una è stata stampata e distribuita e l’altra l’abbiamo utilizzata per il primo disco con la Touch and Go. Un’etichetta inglese ancora esistente, la Cherry Red, che ha prodotto ad esempio i Dead Kennedys, era interessata a noi ma nello stesso periodo è saltata fuori la proposta di Touch and Go. L’abbiamo accettata molto semplicemente, senza rifletterci troppo. Abbiamo suonato tanto a dispetto delle critiche che abbiamo ricevuto per la nostra musica… in Italia non è mai stato facile.
Forse il vostro è un genere verso il quale l’Italia non ha mai prestato molta attenzione?
Penso che adesso ci sono delle band che fanno musica affine alla nostra, però non abbiamo mai goduto della simpatia e dell’apprezzamento delle riviste. Dopo la Peel Session abbiamo ricevuto attenzioni, ma soprattutto perchè John Peel c’ha dato fiducia. Ma non voglio fare di tutta l’erba un fascio, c’erano delle persone interessate ed altre che facevano delle critiche costruttive, sensate, sulle quali abbiamo riflettuto per migliorare. Era bello lo scambio di idee con giornalisti seri. E’ che non siamo mai stati alla moda.
Sempre controcorrente!
Sempre!
E poi con la Touch and Go avete conosciuto altre band con cui avete collaborato, ad esempio i Don Caballero.
Sì, con i Don Caballero eravamo compagni di etichetta. Poi quando si sono sciolti è cominciata questa collaborazione in un periodo di pausa degli Uzeda. Così iniziammo con il progetto Bellini prima con Damon (Che Fitzgerald – ndr), che poi se n’è andato perchè un po’ fuori di testa, e poi abbiamo continuato con Fleisig, che era anche lui agli inizi. Continuiamo a collaborare ma con gli Uzeda è tutto più semplice perchè viviamo nello stesso posto, con gli altri è tutto più dispendioso. Non solo bisogna prendere l’aereo ma uno vive a New York e l’altro in Texas: ogni volta per vederci è un casino!
Riuscite a sostenervi lavorando solo da musicisti?
No, facciamo di tutto per vivere. Io faccio 4 lavori! Con la musica ci sono periodi che ce la facciamo, ma non tutto l’anno. Non è un tipo di musica che ti dà questa possibilità. Nonostante una recente riscoperta del genere musicale, non è semplice. Abbiamo fatto una scelta che è quella di essere liberi di suonare quello che ci pare, con onestà. Per fare questo devi vivere anche con altro, altrimenti devi andare incontro al gusto e alle aspettative del pubblico, ma non siamo i tipi, non ci riusciremmo nemmeno a volerlo!
Progetti futuri?
Stasera abbiamo suonato anche tre pezzi nuovi che inseriremo nel nuovo disco che ancora non è finito, forse in estate sarà pronto.
Tornerete a suonare in Campania?
Magari! Penso proprio di sì. Erano anni che non suonavamo a Napoli. Ci piace suonare ovunque ma con la gente del sud abbiamo un feeling speciale, un’intesa maggiore, sarà per le difficoltà di vita condivise e per la storia comune.
(C. D’Aliasi)
httpv://www.youtube.com/watch?v=SGfWoaGfNe0
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