E mentre contemplo in un macello
il valzer degli agnelli e delle vacche,
il sangue si incanala nelle secche
dei fiumi, per rinnovare il patto
omicida del dominio sulle creature.
Le fabbriche accelerano il processo
di digestione sociale, nascondono
il disgusto al gusto, conservando i corpi
in celle frigorifere, affinché
possa sfamarmi di muti lutti
senza colpa.
La morte asettica,
nascosta nella chimica
indolore, nei paramenti
candidi del dottore,
che inietta massicce dosi
di tranquillanti, per evitare l’ultimo
sgomento al vivente, nelle carni…
La morte assolta
dalla paura, dalla rabbia,
dalla violenza…
La morte di una vacca in un macello,
differente solo per numero.
La morte in diretta video,
sul teleschermo che fa schermo
al sangue, alla vita.
La morte pacifista,
atarassica, socialista, pianificata
nei piani quinquennali
del deus est machina…
Viviamo in una Wasteland, un mondo bagnato di pioggia acida alla Blade Runner, in cui “ho visto eserciti di motorini spendere la nucleare primavera nel giro sul grigio fino a tarda sera, e verdi contaminati, esplorazioni di vuoti sintetici, mentre la notte batteva il cervello protetta da un ballo di fine stagione“.
E’ un ritratto postbellico e postindustriale, con dettagli grotteschi e quasi splatter, che ci intrappola come una schiera di vacche verso il macello, massificati e carnefici di noi stessi.
Vita Media è una performance multimediale che unisce parole, musica e immagini, uno schiaffo di quelli che ti svegliano dal sonno.
“E’ una passeggiata” in un inferno dantesco, “in mezzo alla desolazione, all’alienazione prodotta dal filtro tecnologico e dal dominio tecnocratico. Passeggiata che si conclude con l’arrivo nella cabina di comando e con la scoperta dell’esistenza di un solo pulsante” paragonabile “all’occhio onniveggente e onnivoro di Dio – che vuole tutto quel che vede – e nel quale la realtà si riproduce all’infinito” afferma Antonio Guarino, autore dello spettacolo insieme con Ettore Pastena e Carmine Masiello in arte Klein. Rispondono alle nostre domande:
Come è stato concepito “Vita Media”, e come è nata la collaborazione fra scrittori, musicisti e video artista?
Antonio: Vita Media è frutto della comune riflessione fatta sulla società contemporanea: una società in cui la téchne attraverso gli strumenti, i mezzi o meglio ancora i media, si è in qualche modo ibridata con l’umano, generando il paradosso di esseri usati da ciò che usano. La multimedialità dello spettacolo parrebbe in contrasto con la critica su esposta, se non fosse che tale moltiplicazione di mezzi (corpi, voci, fogli, computer, mixer, chitarre, telecamere, video ecc. ecc.) è filtrata da un’ironia di fondo: l’alienazione prodotta e proposta allo spettatore non è che lo specchio fedele di una condizione quotidianamente sperimentata, offriamo così attraverso la finzione un frammento di verità – d’altra parte “nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso” , scriveva Debord.
Nella realizzazione dello spettacolo era dunque non solo necessario, ma d’obbligo integrare diverse forme d’arte, di tecnica, e in questo abbiamo avuto la fortuna di incontrare Gianmario Del Sorbo (con cui avevamo già collaborato) e Vincenzo Ricciardelli, due ottimi musicisti che coinvolti dalla tematica affrontata hanno provveduto alla composizione delle musiche.
Da cosa traggono ispirazione i vostri testi e perché scegliere di interpretarli e declamarli su un palco?
Antonio: Alcuni testi sono stati scritti proprio per l’occasione, altri aspettavano nel cassetto il loro momento. E questo momento infine è arrivato con il progetto “Vita Media”.
Benché si noti una certa frammentarietà (in parte voluta, in parte ovvia conseguenza di una scrittura che ha visto coinvolte tre sensibilità diverse: la mia, quella di Ettore e quella di Carmine), tutte le poesie ci danno una descrizione dall’interno di questa progressiva deumanizzazione, sono una passeggiata tra le macerie prodotte dall’homo sapiens.
Declamare poesie è un gesto inattuale, sa di novecentesco, eppure crediamo che a maggior ragione, proprio per questa antimodernità, oggi abbia senso dare voce alla parola poetica, l’unica, come scriveva Heidegger, a custodire in maniera privilegiata la verità dell’essere.
Ettore: Il concepimento dei testi, prescindendo ovviamente dalle differenze strutturali e di vissuto dei tre autori, muove i passi da un confronto che di poetico ha poco o nulla: uomo-macchina, o meglio, uomo-computer.
La violenza e la velocità delle informazioni telematiche e l’iperconnessione globale hanno aperto, paradossalmente, un varco sul significato. La parola costantemente in vetrina e sempre in movimento ridiventa significante, ticchettio di tastiere, musica, segno puro.
Abbiamo deciso di sfruttare questo varco di significazione per guardare, seppur drammaticamente protetti da uno schermo, quell’ancestrale balbettio post-babelico. Vogliamo, in fin dei conti, utilizzare il computer per parlare di Dio; calcare il significato, saturarlo, per cogliere quel caos logico-linguistico che è materia squisitamente religiosa.
La performance live, in questo contesto, si pone come rito esorcizzante; la nostra presenza sul palco tra le immagini del video e i suoni elettronici, rappresenta nient’altro che l’imperante condizione quotidiana di corpi tra le cose.
Le vostre voci si sovrapponevano e si rincorrevano, si mescolavano anche alle voci dei presenti, creando un effetto volutamente confuso in una specie di Babele, giusto?
Antonio: Il sovrapporsi delle nostre voci, il loro mescolarsi alla voce del pubblico, ai suoni elettronici, ai rumori del bar sono il segno evidente di una poesia viva, che si inabissa e riemerge, come il dorso di un serpente marino…
Quanto alla torre di Babele, credo che proprio dal giorno in cui si confusero le lingue, la parola, sottratta alla tirannia del significato, sia diventata canto.
Le immagini si incastrano con musica e parole, creando un effetto alienante, ipnotico. Le scegli in base all’effetto che possono avere sul pubblico, oppure prendi in esame solo le tue sensazioni individuali?
Carmine: più che incastrarsi direi che i miei videodinamismi si sovrappongono, seguono il dispiegarsi nel tempo di media più diretti, perché ad un livello di mediazione ridotta. Per quanto riguarda la scelta: l’unico effetto della percezione realmente intellegibile è il proprio. Quindi l’altro può esistere solo come come un orbitale, un contenitore di probabilità attribuitegli di provare il probabile. Noi mettiamo le dita nelle prese. Noi giochiamo con il cortocircuito x allungare le prospettive e le intersezioni con quelle altrui.
L’uomo perde la propria identità all’interno della massa, il mondo che egli ha creato è in rovina. “Che il compimento di questa vita sia nella perfezione della catastrofe?”
Antonio: La domanda resta aperta.
Vita Media
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