Life is not a care, life is not a worry.
Uno sguardo delicato sul mondo, che parte dalle strade del North Dakota per toccare gli angoli più disparati d’America, con lentezza e attenzione anche ai minimi dettagli. Una raffinatezza asciutta e priva di arabeschi, in equilibrio tra grazia e inibizione, un’eleganza fatta di colori e movimento, di tempi che sembrano non appartenerci, lontani dalla tecnologia e dallo stress che essa comporta.
La musica di Tom Brosseau ha la capacità di superare tutti i confini, di straripare dagli argini e arrivare in posti dell’anima che sembrano insondabili. Forse perché non si tratta di semplice musica: il suo è un linguaggio fatto di polvere e pietre preziose, con un parlare che è frutto della vicinanza di fattori distanti e apparentemente inconciliabili.
Insomma, una sorta di vittoria dell’impossibile sul reale.
In primo luogo è una musica che nasce da un istinto più che da una disciplina, da qualcosa di ancestrale che scorre nelle vene e di cui si perde la provenienza. E’ nell’aria che ha sempre respirato, nella terra che ha calpestato, nella fredda provincia dall’orizzonte piatto e verde, nelle file di casette a Grand Forks. E’ nell’ascolto dei dischi di Marty Robbins, Bob Dylan, Lead Belly e Delmore Brothers, nel Great American Songbook, nella Tin Pan Alley, nella musica che suonava suo padre, nel bluegrass della nonna Lillian Uglem che gli insegnò a suonare la chitarra acustica quando era ancora bambino. Non c’era tra loro un rapporto fatto di tante parole, e allora la chitarra diventava territorio franco, un momento di incontro che superava l’incomunicabilità intergenerazionale.
In secondo luogo la sua musica è narrazione, come nella migliore tradizione folk ma in modo meno diretto, misterioso come il blues che parla prima al petto e poi alla testa. E’ come un bosco fitto in cui mille strade si diramano e la luce filtra attraverso i rami degli alberi: bello ma restio ad accogliere la presenza umana. Entri solo se hai il coraggio di perdertici dentro.
Vederlo tornare al Godot è un onore. Esegue brani dal suo ultimo disco (prodotto da John Parish) “A Perfect Abandon” -Roll Along With Me, Take Fountain, My Sweet Friend…- e dal precedente “Grass Punks” – Cradle Your Device, Today Is A Bright New Day- poi tributi come How To Grow A Woman From The Ground di Chris Thile, Freight Train di Elizabeth Cotten e Innocent When You Dream di Tom Waits. Tra applausi e richieste di bis non sembra potersi liberare facilmente di noi ma è felicemente ostaggio, sorride timidamente e prosegue.
Quello che sento quando ascolto Tom Brosseau è la nostalgia di qualcosa che non ho vissuto, che mai vivrò e che, attraverso il suo cantautorato, posso solo provare a immaginare. Così come, in assenza di foto a testimoniarlo, posso solo provare a immaginare J. L. ‘Joe’ Frank, uno dei primi promoter e manager di musica country, mentre indossa il suo cappello con “perfetto abbandono”.
Reportage Claudia D’Aliasi
Foto e Video Alessandro Farese
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