Lo scorso sabato 31 gennaio, alle ore 17:00, gli appuntamenti con il Caffè filosofico del Godot sono ripartiti con un tema scottante e di grande attualità.
E’ la quinta edizione di un progetto che al Bistrot riunisce giovani studenti, professori, appassionati e curiosi. Il punto di partenza è la filosofia, ovvero il domandarsi, ma lo scopo è il dialogare, ed è con questo punto che inaugura il suo intervento Mario Coppola, moderatore insieme con Leonardo Festa del dibattito intitolato “Je suis Charlie”, uno slogan con infiniti significati ma anche un “Hashtag” che ha caratterizzato le bacheche dei nostri social network. «Moltissime persone hanno manifestato in seguito all’eccidio alla redazione di Charlie Hebdo. Ma in nome di cosa hanno manifestato? Suppongo in nome di cose come la libertà di espressione, la difesa della vita o del non uccidere, il diritto o i diritti, la tolleranza, il non avere paura, la non ingerenza della religione sulla sfera pubblica, o la separazione tra le due cose, o la laicità dello stato, e così via. Mi sembra che non siano di per sé motivazioni valide, e che vadano esse stesse messe in discussione» dice Mario, lanciando una sorte di provocazione votata a farci riflettere: uccidere non è anch’essa una forma di libertà di espressione?
Leonardo invece ci fa riflettere su un’altra questione: «Siamo in guerra? Dalla storia di Abramo e Isacco alla riflessione sulla banalità del male, la storia del pensiero è ricca di riflessioni che confermano un senso di comune disagio rispetto a quella che chiamiamo civiltà». E a complicare tutto è lo scontro fra due civiltà, quella Occidentale e quella Orientale.
Il progetto è patrocinato dal Borgo dei Filosofi ed è anche promosso da Crubles, un innovativo portale di social carpooling.
Caffè Filosofico: Je suis Charlie
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Avanzo subito una tesi di fondo per valorizzare questo caffè filosofico impegnato nella tematizzazione di un cruciale fatto contemporaneo rispetto al quale, io credo, solo il pensiero può fare la differenza: la violenza, efferata, accaduta in Francia pone una problematica che non ammette soluzioni lineari. Non possiamo, infatti, «liquidare» la strage dei vignettisti così come essi sono stati liquidati, nei termini in cui essi sono stati liquidati, e il motivo per cui non possiamo riguarda ontologicamente l’uomo e la sua libertà che, come è stato detto al caffè, è intrinsecamente paradossale.
Non possiamo perché quella violenza è ef-ferata, appare cioè bestialmente a noi uomini che ci poniamo a distanza dalla bestia. Quella violenza è al limite dell’umano, e quel limite appartiene a tutti noi che ci riconosciamo in quanto mortali. Come la violenza dei campi di concentramento nazisti, essa pone la premessa ineliminabile ad un pensiero perciò imperativo: se questo è un uomo, quindi … e sui puntini bisogna scrivere.
Certo, per chi è colpito direttamente o è vicino ai colpiti è più difficile non reagire linearmente, non fare come un cane che rincorre un gatto che gli ha offeso la coda, non appartenere ad un «noi» di diverse figure ugualmente prese nella stessa situazione.
Il Papa dice che non bisogna provocare perché è umano reagire ma, se l’umanità comincia da quando non finisce in un riflesso condizionato, è esattamente l’opposto. Una pro-vocazione è una umanissima azione di stimolo diretta verso una ri-sposta, ma la risposta non può consistere nell’eliminazione della provocazione così da non avere più il problema della risposta, e la provocazione non può autoeliminarsi per non essere eliminata dalla risposta. Ragionando in questo modo si esce dall’umano per non avere il problema dell’umanità che si è. La risposta alla violenza non è ricordarla affinché non accada più, per non avere più il problema che pone, ma ricordarla per rispondere al problema che impone superandola così, di conseguenza, come premessa. Forse il «porre l’altra guancia» non è in contrasto con le mie tesi.
Uno degli insegnamenti che una donna stuprata può darci è la tragica rabbia che può provare rispetto a chi matura un senso di vendetta immediata per ciò che ha subìto. Oltrepassata la donna come essere umano per un’obiettivo, il violentatore diventa termine di una congestionata (re)azione «liquidativa» della violenza. Cambiata dall’aver vissuto il limite dell’umano, la donna violentata si ritrova adombrata da ciò che l’ha offesa in chi le è vicino.
Anche i vignettisti erano già obiettivi prima d’essere uccisi; come termini d’una azione i colpiti sono già esclusi dalla mortalità, implicitamente prima riconosciuta e poi negata. I terroristi si espongono così al paradosso della vita che è quello della libertà, negando la mortalità che anche loro si riconoscono.
Gramellini per salvare l’uomo si aggrappa alla distinzione tra uomo e matita. Occorre però domandarsi se l’uomo sia separabile dalla matita. C’è l’uomo senza la matita? Con la matita in mano vediamo chiaramente la differenza; la matita, dopo averla usata la lasciamo sulla scrivania e noi siamo un’altra cosa. Sì, ma dopo l’uso. È pensabile un essere umano non tracciante?
Se non ci dimentichiamo del rapporto traccia-uomo ci avviciniamo alla criticità delle provocazioni satiriche. E non si tratta della freddezza, disumana, di tenere separato l’uomo dal pensiero, la mano dallo scritto, come dice Umberto Eco, quella è la freddezza del cadavere deciso dalla violenza. Si tratta invece del calore umano di provocarsi nel costitutivo segno della matita. Si profila una «corrosiva» connessione tra uomo, traccia, matita, libertà, mortalità e satira in cui la risata non allontana la morte, come dice sempre Eco, ma riecheggia a favore o contro le strade lineari che l’uomo cerca di percorrere nella paradossale ricerca dell’assoluto in cui realizzarsi liberamente.
Se pensiamo alla libertà di espressione come all’assenza di proibizioni rispetto ad un arco di possibilità, fondiamo la nostra libertà su qualcosa che è al di fuori del nostro pensiero. Come è dato quell’arco di possibilità? Per essere liberi possiamo rincorrere una soluzione lineare all’imperfezione della nostra libertà eliminando – corrosivamente, come è stato suggestivamente detto dal relatore – tutto ciò che ci ostacola, forse auto eliminandoci come fanno i kamikaze? Sì, ma tutto cosa? Forse tutte le possibilità che abbiamo e sulle quali fondiamo la libertà stessa?
L’offesa fine a sé stessa, a differenza della provocazione più o meno satirica, è dunque propria di chi ha già deciso di smarcarsi dall’umanità che incarna.
La libertà, nei termini in cui si pone come problema, è un paradosso autentico nel senso che è un problema non risolvibile ma correttamente posto, e i paradossi si superano, non si risolvono nei termini in cui si pongono.
Tra le varie vignette sull’argomento mi è rimasta impressa quella dell’artista Gipi fatta di un semplicissimo foglio bianco da vignettista diviso in due verticalmente, ma non completamente, dal percorso di una traccia di sangue. A me dice che anche i terroristi tracciano e il foglio è ancora lì per essere tracciato, anche da noi.
Dunque io penso che non sia solo molto importante ma ontologicamente importante parlare di questi attualissimi problemi senza identificarsi con Charlie Hebdo, con vittime cadute nella violenza forzatamente quanto irrimediabilmente prese nella situazione.
Parlarne dunque, moltiplicare le occasioni di confronto e di riflessione alla ricerca di soluzioni «non lineari» del problema, consapevolmente aperti al cambiamento di noi stessi nel superamento delle nostre idee.