A furia di correre e di scontrarci con l’avversario apprendiamo come scartare o come calciare un pallone, ma non tutto si può imparare: l’amore per il calcio, per esempio, non può essere trasmesso, può solo essere vissuto. Il calcio e il mito di Diego Armando Maradona fanno parte di un bagaglio di speranze che hanno accompagnato nella crescita bambini come Mauro Manzo, soprattutto in quel di Napoli negli anni ’80. Mauro non è molto alto, è grassottello e ha i riccioli scuri, un po’ come il suo mito, e il suo desiderio di partecipare ai mondiali e diventare campione si scontra con i suoi limiti trasmettendoci tutta l’amarezza che ci accomuna a lui in quanto ex bambini sognatori.
Questa è la storia de “Il mio amico D“, uno spettacolo scritto ed interpretato da Pietro Tammaro con la regia di Luca Saccoia, andato in scena ieri al Godot per la rassegna Una certa idea di Teatro curata da Gaetano Battista e Clif Imperato.
Pietro, attraverso il suo alter ego, ci fa rivivere scene della sua (e della nostra) infanzia, quando scambiava le figurine (quella di Maradona era paragonabile ad una reliquia), giocava con il fratello nel corridoio di casa e la rottura del lampadario antico per un calcio alla palla troppo forte scatenava il panico in famiglia. A quei tempi le strade di quartiere si trasformavano in campi da gioco, due zaini diventavano i pali, oppure bastava disegnare sul muro la sagoma della porta con una bomboletta. Il pallone era fatto di scotch, di spugna, oppure era il Super Tele… non sempre si poteva acquistare il mitico Supersantos che spesso finiva nelle grinfie dell’adulto di turno (ad esempio Don Vittorio) oppure sotto la pancia delle macchine parcheggiate.
Per Petro/Mauro l’unico modo per avvicinare Diego Armando è diventare arbitro, nella speranza di potergli fischiare un tiro a favore…
Il mio amico D – Intervista
Quest’opera di Radio Cometa Rossa è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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