The Necks live per la rassegna OHMe

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The NecksDefinita dal New York Times “una delle migliori band al mondo”, i The Necks sono Chris Abrahams, Lloyd Swanton e Tony Buck. Il trio australiano dall’esperienza trentennale ha spostato i confini dell’improvvisazione avant-jazz, aprendo un varco su un territorio vasto e indefinibile che Lloyd Swanton -incontrato a fine concerto- ha riassunto con “aestheticized duration”, spiegazione che, sebbene appropriata per descrivere la loro attività, resta parziale e alquanto intraducibile. Di certo ascoltarli vuol dire perdersi in un’esperienza sonora senza pari: il loro è un set lungo e senza pause, fatto di suoni vorticosi e ipnotici, di un equilibrio incredibile, costituito da elementi che si aggiungono lentamente a sostituirne altri, in un crescendo di emozioni.

XineonHa qualcosa di mistico il loro approccio al live e se posso testimoniarlo è perché a fornirmi l’occasione di ascoltarli è stata la rassegna “OHMe” (organizzata con coraggio e passione da Enzo Schiavo e Franco Cappuccio) che stasera prosegue con il concerto di Lino Capra Vaccina al Teatro del Giullare. Ad aprire l’unica tappa italiana della band, il 13 aprile al Teatro Nuovo di Salerno, gli X(i)NEON, progetto di musica sperimentale ad opera di Francesco Galatro (al contrabbasso) e Anacleto “AV-K” Vitolo (alla manipolazione computerizzata), per un live capace di mescolare la musica elettronica all’improvvisazione jazz, con una scomposizione di suoni isolati e reintrodotti all’interno di un flusso creativo estemporaneo e multiforme.

Quando tocca ai The Necks le lancette dell’orologio smettono di funzionare, il tempo è sospeso come in una bolla. Lloyd inizia a suonare gli armonici sul suo contrabbasso, poi si aggiunge Chris a picchiettare lentamente sui tasti del pianoforte, e, con molta cautela, entra anche la batteria di Tony, accarezzata dalle spazzole. Quello che sta per accadere è ignoto a tutti e anche alla band, che ogni serata attua una sorta di ricerca sonora e – come leggerete nell’intervista di seguito – di un’esplorazione dell’Universo, mai uguale a se stessa. Il tutto completamente scollegato dalla tradizione, non c’è similitudine a cui aggrapparsi o influenze particolari da rilevare. La musica dei The Necks appartine solo ai the Necks, e loro ne sono consapevoli, sin dal primo disco, “Sex” del 1989, fino all’ultimo, “Vertigo”, uscito l’anno scorso, attraversando altri sedici dischi, tutti diversi fra loro, ma comunque accomunati da una sorta di marchio di fabbrica.

Il finale è una parte fondamentale, a detta della band anche più importante dell’inizio, perché da questo dipende lo stato d’animo che accompagnerà gli spettatori una volta che gli strumenti cesseranno di suonare. Un lungo silenzio, come se non volessimo svegliarci, e poi arriva lo scroscio di applausi a riportarci sul pianeta Terra.

 

Mi ritaglio un angolino del teatro, ormai vuoto, per una chiacchierata con Lloyd Swanton:

Com’è suonare ancora insieme dopo tanti anni e dopo aver realizzato 18 album?

Siamo tutti cresciuti rispetto a quanto iniziammo ma fortunatamente conserviamo ancora un entusiasmo infantile e ingenuo. Sappiamo quasi leggere l’uno nella mente dell’altro ma lasciando sempre un margine di mistero. Come sai improvvisiamo tutto, ogni volta che saliamo sul palco non sappiamo chi inizierà e dove arriverà la performance, quindi è sempre un’emozione nuova, anche dopo trent’anni.

Quindi ogni concerto, in quanto improvvisato, è diverso da quello precedente?

Devo dire che non si può inventare una performance diversa ogni sera, è impossibile essere sempre nuovi rispetto al giorno prima, quindi ci saranno sempre dei suoni ricorrenti per cui all’ascolto dirai: “Questi sono i The Necks!”. Se il nostro set fosse completamente improvvisato noi non saremmo riconoscibili. All’interno di questo sound – che è completamente nostro – c’è ampio respiro e tantissime possibilità e libertà di movimento. E ancora ci sorprendiamo di quello che facciamo.

Non ci sono pattern, né preparazione prima del concerto. Allora cosa influenza il vostro live? Sensazioni particolari, il pubblico, oppure è il posto in cui suonate che può mutare l’andamento del concerto?

In particolare l’acustica dello spazio in cui ci esibiamo. Ogni sala è diversa, se il suono che produciamo al suo interno è asciutto, suoniamo in modo più conservativo e ordinato, altrimenti se c’è del riverbero lo assecondiamo invece di sopprimerlo, spingiamo questa caratteristica fino a esagerarla. Non c’è bisogno di usare nessun effetto, seguiamo cosa ci suggerisce il luogo. Non metto mai ciò che provo nella mia musica, non voglio far arrivare al pubblico le mie emozioni: mi interessa di più il suono puro. Mi diverto ad esplorare l’Universo ogni sera.

Quando invece dovete registrare una sessione o un album, immagino sia diverso.

Molto diverso. Avemmo una specie di dilemma filosofico alla nostra prima registrazione. Pensammo: “dovremmo registrare un concerto dal vivo oppure in studio?”, era impossibile replicare un live, quindi decidemmo di ricorrere allo studio di registrazione per tutte le volte che ne avremmo sentito l’esigenza. Abbiamo creato due identità diverse – una da concerto e una da studio – che spesso però collidono, e le persone possono riconoscere lo stesso gruppo in entrambe le situazioni.

Perché all’inizio della vostra carriera non volevate suonare davanti a un pubblico?

In effetti non è molto comune che un gruppo nasca con la precisa volontà di non volersi mai esibire. Non era perché non ci piaceva la gente ma solo perché il processo di creazione musicale era agli inizi, lo sentivamo ancora fragile e non volevamo pressioni esterne. Potrai obiettare: “Allora bastava aspettare una maggiore sicurezza in se stessi e poi uscire allo scoperto!”, ma noi avevamo deciso dall’inizio di non volere un’audience. Solo dopo sei mesi di seminari al Dipartimento Musicale dell’Università di Sidney, un ragazzo dello staff venne da noi per dirci: “Vorremmo tanto sentirvi suonare, vi abbiamo ascoltati dal corridoio. Abbiamo organizzato una rassegna musicale, perché non partecipate?”. Da lì nacque una discussione su cosa avremmo dovuto fare. Alla fine decidemmo di buttarci e tutto andò bene, e da allora sono sei mesi che suoniamo in privato e ventinove anni e mezzo in pubblico.

Pensate mai a come il pubblico recepisce la vostra musica?

Non abbiamo nessuna aspettativa perché dopo tanti concerti sappiamo che possono esserci infinite risposte. Alcuni si addormentano e dicono di aver fatto sogni bellissimi (ride, ndt), altri sognano senza addormentarsi, altri si immedesimano in noi, immaginando di dover prendere delle decisioni sul palco, altri, che magari non ci avevano mai ascoltato prima, restano un po’ confusi all’inizio. Ci sentiamo fortunati perché i nostri dischi hanno girato il mondo e perché abbiamo suonato tanto, soprattutto in Australia e in Europa ma anche in Nord America, e adesso siamo al punto in cui probabilmente il pubblico che viene a sentirci sa cosa si aspetta, si lascia andare al flusso sonoro ed è contento di essere parte del processo. E’ come se tutti fossero sul palco con noi.

C’è un approccio immaginativo o visuale alla vostra musica?

So che Tony, il batterista, ti risponderebbe di sì, anche perché è un artista, crea video e sculture. Mi piace molto l’arte visiva, la colleziono anche, ma non ho questo dono. Perciò non sono molto interessato al legame tra musica e visione, e qualcuno potrebbe sorprendersi, perché molti di noi credono che sia una reazione normale quella di immaginare quando si ascolta della musica. Ma ti dico che spesso quando guardo i film, la colonna sonora mi annoia e spesso spero che non ci sia. Come ho detto prima a proposito di esprimere se stessi, quando suono esploro l’Universo, e non è un viaggio visivo ma acustico, fatto di suoni e vibrazioni, e non mi sembra povero di stimoli.

Ci sono dei musicisti della scena “improv” che ti piacciono e con cui magari avete collaborato?

Sì, come ti ho detto potremmo dire che non siamo puri improvvisatori dato che i suoni sono simili di volta in volta. Nonostante ciò possiamo considerarci parte del mondo dell’improvvisazione. La lista è lunga: il sassofonista inglese Evan Parker è davvero incredibile, abbiamo collaborato molte volte; un altro grande sassofonista inglese è John Butcher, con un approccio molto differente, estremamente minimale, l’opposto di Even Parker. Non abbiamo lavorato con lui come trio, forse Tony e Chris l’hanno fatto. Ci sono tanti altri musicisti che stimiamo ma l’ispirazione ci viene da noi stessi.

Nessuno vi ha influenzato, quindi? Da dove nasce il vostro approccio, la vostra ricerca?

In realtà è diventato sempre più chiaro man mano che crescevamo insieme. A furia di esibirci davanti a un pubblico abbiamo iniziato a notare cosa ci piaceva approfondire e questo ha formato la personalità della band. Non voglio entrare troppo nei dettagli tecnici ma c’è una combinazione di suoni, o delle arie in cui ci immergiamo, che ci guidano in questa esplorazione. Viene tutto dalla band, dal suo interno, dopo anni e anni di esperienza insieme. Quando formammo i The Necks mi influenzavano ascolti come “My favourite things” di John Coltrane, Miles Davis, James Brown, addirittura il dub e il reggae, la musica africana, l’ambient… e poi mi colpì molto Steve Reich e il suo “Music for 18 musicians”, lo trovo ancora sconvolgente. E poi c’è anche un libro che per me è stata una vera rivelazione: “Music, Society, Education”, scritto da un musicologo, Christopher Small. E’ leggendolo che ho capito che fare musica vuol dire vivere in un preciso momento, non vuol dire avere un obiettivo, una missione, come la creazione di un prodotto, ma è l’esperienza di un attimo. Questa suggestione di Christopher Small mi ha spinto a parlare con Chris e Tony per formare i The Necks. Quindi il disco che mi ha influenzato di più… in realtà è un libro.

Ultimamente avete suonato a Los Angeles, New York, Chicago, Londra, stasera a Salerno. Cosa vi aspetta in futuro, ci sono nuovi live o dischi in vista dopo “Vertigo”?

Mi laverò, mi riposerò, starò con mia moglie e i miei figli… per risponderti seriamente ti dico che avremo qualche mese libero ma c’è già un nuovo album pronto di cui ancora non posso dirvi molto perché dobbiamo completare i dettagli. Torneremo in tour in Europa a novembre, probabilmente andremo in Giappone a dicembre, con l’anno nuovo saremo in Australia perché Tony vive a Berlino ma vuole evitarsi il freddo invernale, a marzo saremo in Nord America e poi a maggio torniamo in Europa. Credo possa bastare come tabella di marcia!

Claudia D’Aliasi



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