Incantata dal live di Stefano De Ponti al Musica nelle Valli 2014 speravo di rivederlo presto dalle nostre parti, senza essere obbligata a percorrere di nuovo più di 600 km. Per fortuna l’occasione si è presentata il sei maggio in uno dei posti più suggestivi di Napoli: il Riot Studio di San Biagio dei Librai. Mi sento quindi di dover ringraziare il nostro amico e collaboratore Vincenzo Moccia per aver fatto da tramite e i ragazzi del Riot per la fiducia e la disponibilità con cui hanno accolto il nostro invito a concedere spazio a un artista come Stefano nella loro programmazione.
Il suo ultimo lavoro, Calce, affronta il tema della transitorietà inteso non solo come caducità della vita, ma esteso e rapportato ai processi mnemonici, alla trasmissione e conservazione dei ricordi e del suono, e che nasce da una profonda riflessione sul modo di pensare e usare la ripetizione in musica. Il concept è stato sviluppato insieme con l’artista visiva ticinese Nina Haab durante una residenza artistica nel luglio dell’anno scorso presso Les Fours à Chaux di Saint Ursanne, ex cava ora adibita a polo culturale, punto di ritrovo di numerosi artisti diversi.
A fine serata ho fatto qualche domanda all’artista milanese capace di mescolare nastri, impulsi luminosi che diventano sonori, ready-made di suoni concreti e stralci rumoristici con field recordings registrati poco prima delle sue performance, e quindi di unire un’idea di partenza a elementi estremamente nuovi.
Claudia: Riflettendo a caldo sul tuo set direi che è in continua evoluzione, non scaturisce un’emozione unica ma tante emozioni diverse, è studiato?
Stefano: In parte sì e in parte no. La risposta si trova nella prima parte vocale all’inizio del set, tratta da Nostalghia di Tarkovsky, film che rappresenta l’input del progetto che è confluito in Calce. Il disco è stato realizzato in seguito a una proposta di Sebastian Peter, un curatore di arti visive che, dopo aver visto un mio live, l’anno scorso mi ha chiesto di collaborare con un’artista svizzera, Nina Haab, di cui stasera avete visto i visual. Ha trovato nella mia ricerca un qualcosa di implicitamente visivo che quindi si sarebbe sposato bene con il lavoro di Nina. Infatti, accettata la sfida, l’ho incontrata e ci siamo subito trovati bene. Nina lavora sul concettuale ma con chiavi di lettura anche drammaturgiche. Prima di partire per la residenza che ci ha accolti, mi arrovellavo sul perché dovessi fare un disco proprio in quel momento. Stavo lavorando con il teatro, quindi ero impegnato in tutt’altro. Ma poi rividi il film di Tarkovsky e rimasi colpito soprattutto dalla frase “senza sogno non c’è utopia, senza utopia non c’è rivoluzione”. Capii che per me era necessario trovare un’utopia, una scintilla che facesse risvegliare in me il desiderio di creare qualcosa di necessario, di mischiarmi alle voci che sembrano inutili, di iniziare una rivoluzione interna da poter comunicare anche all’esterno. I suoni confortevoli, che ci danno sicurezza, volevo abbandonarli per tuffarmi nell’ignoto. E incontrare in una residenza tanti artisti provenienti da tutto il mondo è stata una grande occasione per diventare ricettivo, mi sono quasi dimenticato di me per assorbire le emozioni degli altri. Quindi ho creato una tavolozza sonora dinamica, ho lavorato sui cambi di registro. Il set live è diverso dal disco, propongo dei processi compositivi fissati ma che poi cambiano da luogo a luogo, ascolto il posto in cui mi trovo, con microfoni aperti che campionano cosa c’è nell’ambiente. Non è improvvisazione radicale ma sappi che lavoro su sfumature dinamiche, sensibili alla mia emotività. C’è una struttura dovuta alla strumentazione che uso, che comunque mi lasciano molta libertà, ma quello che avviene quando suono dal vivo è proprio lo specchio di come mi sento, avviene tutto nel presente.
Calce – live at Riot Studio from Stefano De Ponti on Vimeo.
Claudia: Il live di stasera quindi è diverso da quello di Palermo. Cosa ti spinge ad essere più delicato in certi contesti è più noise in altri?
Stefano: Mi piace pensare che non ci sia niente che mi spinga a priori. È la situazione che fa sì che io mi reinventi ogni volta. Ieri pomeriggio ho iniziato a pensare a dei suoni per la serata, ma ho cambiato idea tante volte. La visione del Vesuvio mi ha spinto ad essere più terreno. Qui ho visto tante cose interessanti, cose che ho anche registrato e che voi avete ascoltato nel live, come ad esempio la scena in cui una mamma chiedeva alla sua bambina di allacciarsi le scarpe, in modo anche abbastanza duro. Non potevate saperlo ma la bambina era down. Mi piacerebbe dare con la mia musica un’idea di fragilità e di potenza allo stesso tempo, un po’ come quello a cui ho assistito.
Claudia: Ti capita spesso di fare queste passeggiate e di registrare l’ambiente prima dei live?
Stefano: credo di aver cominciato una sera a Venezia nel 2014, in un posto che non c’è più, il Nero Di Seppia. Avevo un po’ di tempo a disposizione dopo il sound check e sono andato in giro a registrare di nascosto, casualmente mi è venuto di usare quei suoni, che il pubblico ha anche riconosciuto. Anziché usare dei field recordings già fatti preferisco seguire le intuizioni di una passeggiata e usare quei rumori imprevedibili nei miei live, con una dose di agitazione perché non ho il controllo totale della registrazione, non modifico nulla, al massimo il volume. E’ un esercizio che mi serve per entrare in contatto con il luogo in cui suono, come se facessi una fotografia sonora, e per dialogare con il pubblico, come se dicessi loro: “vi faccio sentire quello che sentite tutti i giorni, lo porto in un altro contesto, nel concerto, e lo ascoltiamo insieme in un modo completamente diverso”.
Claudia: Registrare i suoni della strada è in sintonia col concept di Calce in quanto ti poni il problema del tempo che scorre e della memoria sonora. Quindi è un modo per afferrare il presente, non credi?
Stefano: Sì, io quando suono sono completamente calato nel presente, sento i secondi che passano. Ma non so se il mio è più un afferrare il presente mentre faccio le registrazioni o creare un presente mentre le ripropongo durante il live, forse più la seconda opzione. Non mi pongo il problema di conservare le registrazioni, perché la uso come citazioni e non come qualcosa di mio. Mi interessa di più l’ascolto. I primi tre brani di Calce sono completamente dedicati ai momenti vissuti in comunità, una vera e propria esperienza sociologica in cui tutto era in condivisione con gli altri. Ad un certo punto mi sono sentito talmente saturo da volerne uscire, così per la prima volta in due settimane, sono scappato da questo micro-mondo e ho visto il territorio circostante, l’ho ascoltato e l’ho portato, a modo mio, nella seconda metà del disco, un ideale lato B. Un cambio di prospettiva radicale, da un nucleo chiuso all’apertura verso l’esterno. L’idea di conservazione della memoria è insita nei racconti che ci arrivavano come un mezzo per interpretare il luogo e la vita vissuta.
Claudia: Credi sia sufficiente il disco oppure hai altro da esprimere a proposito di questa esperienza?
Stefano: Il disco è finito, probabilmente ci avrei messo altro tempo prima di chiuderlo. A posteriori ti dico che quando l’avventura è finita sentivo tutta una stratificazione di sensazioni, di attimi, di suoni fissati, di esperienze umane… tutto reso possibile grazie al disco, che continua ad essere un legame tra me e le persone che ho incontrato e che continuo a sentire spesso. Il contatto umano era l’utopia che cercavo.
Intervista: Claudia D’Aliasi
Video: Ivan Mazzone, Alessandro Farese
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