Da “Songs without words” altri 4 album, di cui l’ultimo,”Found”, è molto più di un semplice disco: racchiuso in un cofanetto, raccoglie ricordi perduti e infine ritrovati.
Godot Art Bistrot (Avellino), 29 aprile.
Paul Armfield è un cantautore inglese che ha un grande desiderio di raccontare e di raccontarsi. Vive sull’Isola di Wight, che oltre ad essere nota per il famoso festival (1968-1970), è un luogo ancora legato a una realtà rurale e naturalistica che ti permette di stare con un piede nel passato. La premessa non è affatto casuale, perché Paul ha un rapporto molto particolare con con il tempo, e anche con le immagini: affascinato dalle fotografie riflette sul loro scopo, ovvero quello di fissare un attimo e di renderlo eterno. Ma affinché ciò avvenga davvero bisognerebbe guardarle dopo molti anni e vedere cosa esse siano capaci di suscitare, come una sorta di “recollection in tranquillity”. Se poi queste foto vengono ritrovate dopo esser state gettate via, perse, dimenticate, non è più sufficiente il semplice osservare. C’è una specie di recupero, di rilettura alla base di questa operazione che, attraverso l’immaginazione, dona una seconda vita a una miriade di fotografie ritrovate al mercato delle pulci, a Berlino. Fra mille ne ha scelte 15, da ogni foto nasce una canzone che è solo una delle infinite storie che possiamo immaginare. Paul non vuole imporre all’ascoltatore la sua visione, infatti le sue ballate hanno i contorni sfocati di qualcosa che è stato ritrovato, un piccolo tesoro, i cui confini però restano perduti per sempre, come le tracce che hanno portato quei ricordi fino alle sue mani. Ma Paul non vuole indagare, vuole contemplare, preferisce porsi domande che darsi risposte.
Particolarmente belle sono “In Elinor’s eyes” e “Take this kiss”, struggente “The boy in the picture”. Oltre alle foto ritrovate (“found”, appunto), ce n’è una di Duane Michals a ispirare una canzone, eseguita dal vivo con tanto di diapositiva, così come le altre. “This photograph is my proof” dice la didascalia, nonché il titolo: questa foto è la testimonianza del nostro amore, ormai finito. E puoi vederlo tu stesso che era reale, “see for yourself”!
Ogni brano è un viaggio, anzi una passeggiata, un racconto in cui anche un avvenimento semplice come perdere l’ultimo traghetto verso casa diventa una piccola opera d’arte. Nella vita reale, Paul ama viaggiare da solo, in particolare ama camminare, perché il passo scandisce il giusto tempo per osservare le cose e catturare le sensazioni che le città sono capaci di donare (“the sense of the town”). Ha una sensibilità apparentemente naif, da gigante buono, con quella barba folta che gli incornicia il viso e che accarezza dal collo verso il mento, e la sua cordialità fatta di modi amichevoli e parole tenere, soprattutto quando parla dei suoi figli, di cui è molto orgoglioso. Eppure nasconde dietro quel suo ampio sorriso la consapevolezza della crescita, del doversi confrontare con le avversità della vita e con mille preoccupazioni. Il tutto viene canalizzato nella sua musica, anche la paura della morte: “Tutti diventiamo anonimi e dimenticati, ecco cosa voglio dire con i miei brani. Sono affascinato dal senso dei legami. Cosa lascerò dopo di me? Quanto dureranno le mie canzoni?”.
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