Il percorso di liberazione del corpo dai vincoli imposti da un’etica molto rigida ha attraversato tutto il Novecento. Le donne si lasciavano alle spalle i busti e i cappelli ingombranti, gli uomini i colletti inamidati, le ballerine talvolta le scarpette a punta a favore del piede nudo.
Con l’Aktionismus viennese alla fine degli anni ’60 vari artisti (come Arnulf Rainer, Rudolf Schwarzkogler ed Herman Nitsch) sviluppano le prime forme di Body Art. Il corpo diventa soggetto, oggetto e medium artistico in una simbiosi limitata nel tempo e nello spazio.
Una delle donne più coraggiose, provocatrici e avanguardiste di questo ambito è Marina Abramović (Belgrado, 30 novembre 1946) che cinque giorni fa al Moma di New York ha presentato un progetto visionario e, come lei stessa lo definisce, “utopistico”: creare il MAI (Marina Abramović Institute), una casa dell’arte performativa che unisca cinema, teatro e “arti ancora non inventate” con scienza e tecnologia, senza dimenticare una forte influenza spirituale, che porta quasi ad un superamento dell’arte stessa.
In decenni abbiamo visto Marina impegnata in performances lunghissime ma di impatto immediato e destabilizzante sul fruitore, dure da sopportare fisicamente e psicologicamente per lei, autolesioniste al punto da sfiorare la tortura. La ripetitività e la tipologia delle azioni scelte evadono completamente dal normale susseguirsi di azioni quotidiane di un essere umano, diventano rituali in una sfida che impone al corpo una severissima disciplina. Memorabile è l’happening del Balkan Baroque in cui seduta su un mucchio di ossa animali le puliva dal sangue e dai brandelli di carne, come penitenza, come per lavare via le colpe del mondo dalle atrocità della guerra (non solo quella nei Balcani). Questo vero e proprio sacrificio in cui “the performance become[s] life itself”, questo sbattere in faccia un simbolo di cruda autenticità, dal vivo, non frammentato e per questo ancora più carico di significato rispetto a reali immagini di guerra viste su uno schermo, le è valso il Leone d’oro alla biennale di Venezia nel ’97.
L’imprevedibilità di Marina l’ha portata a ferirsi, a rischiare il soffocamento, a far entrare le sue performance nel corpo in profondità come lame affilate, non solo in senso lato. In Rhythm 0 (a Napoli nel 1974) offriva al pubblico una gamma di oggetti da usare su di lei o contro di lei, addirittura una pistola carica, e la reazione degli avventori fu davvero sorprendente: la denudarono, la ferirono, le asciugarono le lacrime, e ciò dimostra quanto questa sia un’arte inclusiva e votata alla condivisione.
Marina infatti non ha sempre lavorato da sola: l’artista e fotografo Ulay, suo grande amore per 10 anni, è stato suo partner in molte occasioni: si schiaffeggiavano a vicenda; respiravano l’uno attraverso l’altro, buttandosi anidride carbonica nei polmoni reciprocamente; lui tendeva un arco la cui freccia non aspettava altro che scattare per colpire lei; hanno affrontato il cammino lungo la Muraglia Cinese partendo dai due principi opposti, incontrandosi a metà strada…
Durante la retrospettiva “The Artist Is Present” che nel 2010 ha animato il Moma con proiezioni, fotografie e con gli allievi della Abramović che riproponevano sue vecchie performances, per due mesi interi Marina si è seduta al centro di una sala, immobile ed in silenzio, e i visitatori si alternavano sedendosi di fronte a lei, instaurando un rapporto di tipo energetico e mentale, semplicemente guardandosi, senza mai toccarsi. Molti di questi scoppiavano in lacrime soprattutto perché lei si trasformava in “uno specchio attraverso il quale la gente vedeva se stessa”. Anche Ulay, dopo aver fatto la fila come tutti gli altri, si siede di fronte a lei. I due vecchi amanti si guardano a lungo e infine si prendono per mano in un momento di forte emozione.
L’assenza di movimento e il silenzio in un lasso prolungato di tempo sono scioccanti quasi o addirittura più della violenza perché sono qualcosa di straordinario, mentre la violenza fa parte della vita quotidiana.
Durante la recente conferenza al Moma Marina spiega che dietro ogni performance c’è una preparazione impeccabile: fra le prime procedure da affrontare c’è quella che lei chiama “clean the house”, ovvero “prenditi cura del tuo corpo”. Questa comporta, per lei e i suoi allievi, svegliarsi prestissimo, mai alla stessa ora per evitare la routine, uscire nudi dal letto ed esercitarsi in luoghi poco confortevoli, molto caldi o molto freddi, affrontare cinque giorni consecutivi di digiuno e di silenzio, accumulare il rancore dovuto alle tante privazioni e poi liberarsene con esercizi di respirazione, dilatare e accelerare il tempo muovendosi lentamente o velocemente nello spazio, abituarsi all’idea che il corpo diventa pubblico, esposto agli sguardi indagatori dei visitatori che si aspettano di recepire in modo chiaro il messaggio di cui i performers si fanno carico.
Le esperienze accumulate negli anni, in giro per il mondo, vuole farle confluire nel MAI, che fisicamente si collocherebbe ad Hudson (NY) ma che ha bisogno di venti milioni di dollari per partire, una somma alta che si spera di raggiungere tramite foundraising, merchandising e un gioco on line. “I pittori sono abituati a vendere quadri per fare soldi ma i performers non hanno nulla da vendere” ironizza Marina. Una delle attività previste all’interno dell’istituto è “the Abramović method” che prevede un contratto in cui al visitatore viene chiesto di donare sei ore del suo tempo per immergersi in un’esperienza multisensoriale davvero unica. Questo metodo trasforma le persone in oggetti: è il pubblico ad esibirsi e l’artista non è più necessario.
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